venerdì 25 dicembre 2015

And so this is Xmas

Lo spirito del Natale è qualcosa di impalpabile e sfuggente, e per quanto mi riguarda prescinde dal credo religioso. Per me, nel corso degli anni, è andato e venuto, ha avuto varie forme e colori, e ammetto che nonostante i bambini è un po' di tempo che non mi fa visita.
Quando ero bambina il Natale era un tempo lungo e dilatato, sapeva di sospensione della scuola, di terribili costruzioni di candele per l'avvento durante il catechismo (una delle ennesime contraddizioni di mia madre, che l'ora di religione a scuola no, ma il catechismo sì), di attesa, di pomeriggi divisa tra compiti di scuola e cartoni animati su Italia1 (erano gli anni 80, e noi si guardava Bim Bum Bam), intervallati da spot natalizi come se non ci fosse un domani.
Un copione che è rimasto uguale per molti anni, quello dell'attesa e del 25 dicembre, piacevole e rassicurante, sebbene sotto l'albero non ci fosse mai davvero quello che volevo (ma solo perchè quello che volevo era impossibile): ricordo i crostini coi fegatini, la tombolata coi legumi secchi sulle cartelle, ricordo mio padre e mio zio che mangiavano spagnolette tutto il pomeriggio, le tartine al salmone che già alle sette di sera sapevano di stantio, il brodo di cappone, gli zii e i cugini, epifanie che col tempo sono scomparse una a una.
Non so se è stato perchè avevo vent'anni o perchè mio padre se n'è andato, ma le cose a un certo punto sono cambiate e il Natale è diventato un'incombenza da sbrigare in fretta. Pochi regali, poca voglia, l'unica cosa che non è mai mancata è stato il cibo cucinato da mia madre, che è sempre buono anche quando non lo è davvero.
Poi ho conosciuto l'Interista e in qualche modo sottile lo Spirito del Natale è tornato.
Coi miei abbiamo iniziato a festeggiare la sera del 24, lui i primi anni arrivava tardi perchè andava a fare il Babbo Natale per i bambini delle famiglie disagiate con l'associazione in cui aveva fatto il servizio civile, tutto era diventato semplice, c'erano i miei fratelli, le capesante gratinate, i regali sempre sbagliati e un casino totale in cucina. C'era una mancanza che avevamo imparato a gestire.
Un anno con l'Interista comprammo un faccione di Babbo Natale col cappello verde, un po' no-global, senza sapere (o sì?) che lo stavamo comprando per i bambini che sarebbero venuti. A volte fai le cose a caso, e quelle cose hanno un senso perfetto che altre pianificate a lungo non avranno mai.
E questo si sa.
Ma il Natale più bello passato finora, quello che ogni anno mi torna alla mente ed è il mio personale  paradigma di Natale, è quello più insospettabile. Non ricordo che anno fosse, non ricordo quasi nulla, tranne che non avevo una lira e avevo trovato un lavoro di 3 settimane allo scomparso Virgin Megastore in Galleria. Avevo passato dicembre a battere scontrini in cassa, rimuginando sull'utilità dei miei studi in Lettere. Il 24 facevo il turno di chiusura, ricordo ancora l'ultimo cliente di una fila infinita, un tipo distinto che aveva comprato tutti i regali all'ultimo, una valanga di dvd, cd, libri: il pos rifiutò la sua carta di credito una, due, tre volte... vi prego, vado un attimo a prelevare e torno, il suo volto era quello della disperazione. Erano le otto e cinque minuti, tutti volevano andare a casa, qualcuno alle mie spalle disse "mi spiace, non è proprio possibile".
Mentre le luci del negozio si spegnevano mi sono abbottonata il cappotto e ho preso la via di casa. Faceva un freddo folle, in giro non c'era nessuno, mi sentivo sola, mi mancava mio padre. Ho preso la metro e sono arrivata a casa di mia madre, e da lì è nato un nuovo corso delle cose.
Quel senso di solitudine nel freddo del mezzanino della metro, quello è stato il mio Natale perfetto, perchè il Natale per me, non credente, è la festa di chi aspetta qualcosa e sa che può arrivare. E' la festa di chi sa cosa vuol dire essere solo, e tanto più apprezza il valore della compagnia umana.
Buon Natale a tutti voi.


martedì 15 dicembre 2015

#orgoglioponpon

Io da piccola, credo di averlo già confessato, ero un po' un caso umano.
Bruttina e disadattata, ad aggravare la situazione gli outfit improbabili (persino per gli anni '80) forniti da mia madre, e le acconciature che non avrebbero sfigurato nel bar di Guerre Stellari.
Poi sono cresciuta, ho perso un po' di sfiga ma mantenendone quel tot che sarebbe servito in tempi (recentissimi) in cui anche essere sfigato aveva un suo perchè.
Una cosa però mi sono sempre detta: ai miei figli non succederà.
Ai miei figli non succederà di tornare a casa da scuola col magone perchè il tal compagno li prende in giro, non per qualcosa che dipenda da me.
Ma la vita è bastarda, si sa.

Qualche giorno fa il Bruco ha perso il suo cappellino rigato e molto cool di un noto marchio di abbigliamento giocando al parco. Io la mattina dopo ho aperto il cassetto e ho tirato fuori un altro cappello che avevo lì. Vediamo se ti và, gli ho detto. Gli andava.

Venerdì, ore 16.40, fuori dai cancelli di scuola.

"Ciao Bruco! Com'è andata oggi?"
"Eh..."
"Eh cosa?"
"Mamma c'è un bambino che mi prende in giro..."
"Ti prende in giro? E per cosa?"
"Per il ponpon"

Trasecolo.
"Per il ponpon? Ma che davéro? Ma come per il ponpon?"
Io, la bambina dalle tre trecce, la più perculata della scuola elementare, non mi ero posta il problema del ponpon.

Lunedì, ore 16.45, fuori dai cancelli di scuola.

"Ciao amore! Tutto bene?"
"Mamma mi prendono ancora in giro..."
"Ancora? Ma per il ponpon?"
"Sì... ridacchiano e mi fanno l'imitazione"

Quindi praticamente non conta niente se sei di una bellezza esagerata.
Se hai lo stigma della sfiga, e se questo stigma si concretizza in un ponpon sul cappello, non c'è niente da fare.
Ma da quando il ponpon è da sfigati? Perchè non ne sapevo niente?
Faccio qualche ricerca su internet e trovo addirittura un libro, appena uscito, edito Rizzoli, che racconta di un bambino sfigato con un enorme ponpon in testa.

Come direbbe mia madre: io boh.

Lunedì sera, a casa di Orlando.

"Interista, abbiamo un problema"
E gli racconto del ponpon.
"Cosa facciamo? Eliminiamo il problema cambiandogli cappello o ne facciamo una questione di principio? No perchè io non voglio dargliela vinta a questi perculatori in erba, sono pronta a lanciare su twitter l'hashtag #orgoglioponpon, che poi praticamente è una versione sofisticata di #orgoglionerd (e il Bruco ha decisamente pure quello) - dovete sapere che l'Interista nel frattempo è diventato un uomodigital e quindi bisogna parlare la sua lingua per ottenere i migliori risultati"
"Ma và, che gli desse due testate e la finiamo così" (ok, non del tutto digital).

Ad oggi il ponpon c'era ancora.
Un po' perchè quelle tre trecce mi hanno resa quella che sono, pur attraverso un mare di difficoltà, e rivendico la validità di quel percorso.
Un po' perchè bisogna imparare a cavarsela da soli, a difendere le proprie scelte anche se impopolari e un sacco di altre belle cose che adesso non mi vengono in mente, lo ammetto, perchè mi dispiace un sacco per quel bel muso che sta sotto al grande ponpon.

E comunque #orgoglioponpon

Ps: voi che dite, glielo cambio, il cappello?

martedì 24 novembre 2015

Lost Love

E' un cubo di vetro e acciaio, all'interno del quale è ricostruita una stanza. 
Più una situazione che una stanza. Ci sono un lettino ginecologico, un attaccapanni con un camice bianco appeso, un tavolino con dei ferri da chirurgo, e oggetti di cui qualcuna si è spogliata in un tempo che non è definito, forse ieri, forse 10 anni fa. 
Un orologio, una collana di perle, un anello d'oro, scarpe, una borsa, effetti personali simbolicamente abbandonati: quelli sì che si possono mostrare, al contrario degli affetti, abbandonati anche loro, lasciati lungo il percorso in qualche stanza o in qualche via. 
E' la scena di un aborto che è stato, è la stanza in cui qualcosa è andato perduto, non si sa come, non si sa perchè.
Il cubo di vetro è pieno d'acqua, e meravigliosi pesci tropicali vi nuotano all'interno, lenti come il tempo, veloci come il tempo, nulla di più adatto a mimarlo. Occhi tondi che da dentro ti guardano, ti inchiodano, guizzano oltre l'abito dell'abitudine che hai cucito addosso.
Le staffe volteggiano molli, trascinate dalle correnti e dai movimenti dei pesci che incuranti soggiornano tra le attrezzature chirurgiche, piccoli pesci simili a sogni in cerca di un posto dentro questo grande utero che in un presente accennato è vuoto.
Acqua, acqua ovunque, e pesci, forse una simbologia fin troppo facile per una maternità a cui (dover?) rinunciare.
Guizzi di colore in mezzo alla desolazione - colori che ti ipnotizzano, ti fanno dimenticare - quell'istanza insopprimibile di vita che racconta di tutti i figli che il mondo ha messo al mondo e sempre ne metterà.




Molti mi hanno chiesto come facesse a piacermi un'opera così inquietante, così triste.
La risposta è qui, ed è che la trovo di una poesia struggente. Si intitola Lost Love.
E' di Damien Hirst e la potete vedere alla Fondazione Prada fino al prossimo gennaio.

mercoledì 14 ottobre 2015

Non riesco a non pensare

E' stato un paio di anni fa, era estate, e io aspettavo che il tempo passasse nella piazza del paesiello (quasi) natìo dove fino ad ora ho trascorso i miei 'agosti' con i bambini mentre l'Interista era già rientrato in "fase campionato".
Ero seduta su una panchina col cinquemesenne attaccato alla tetta e il quasicinquenne attaccato alla palla, e all'ennesimo tiro pericoloso gli ho urlato "Orlandooooo, bastaaaaa!".
E vedo questo bel ragazzo che mi si avvicina e mi dice: "Scusa, tu per caso sei la cognata di ...?"
"Sì, sono io" rispondo incredula
"No perchè ho sentito il nome di Orlando e sapevo che eravate da queste parti... leggo sempre il tuo blog"
E insomma abbiamo iniziato una chiacchierata che è durata più di un'ora: lui era un collega (ma più che altro un grande amico) della zia del Bruco, ed era in vacanza nel paese accanto, con la famiglia.
"Mio figlio è al parco giochi qua sotto" mi ha detto, e dopo un po' ci siamo incamminati per raggiungerlo, perchè poi aveva la stessa età del Bruco e allora magari avrebbero potuto giocare un po' insieme. Nel frattempo mi ha chiesto consiglio sui ristoranti della zona, e io gli ho parlato di questo e di quello, che coi chili negli anni avevo messo su anche un po' di esperienza in materia.
Poi siamo arrivati al parco: "eccolo là" mi indica lui, così l'abbiamo raggiunto e io mi sono presentata alla ragazza che era col bambino, iniziando a parlare di cose mammesche.
Dopo qualche parola "io non sono la mamma..." mi dice lei.
Non era la mamma, perchè la loro famiglia era composta da due papà.
Pochi minuti e ho potuto parlare di cose mammesche con la persona giusta, un altro bel ragazzo che nel frattempo raccoglieva pinoli per il figlio.
"Lo sai che tuo figlio assomiglia tantissimo al bambino di quel film con Jodie Foster dove lui è un piccolo genio?". E via a discorrere di scuole, e di vacanze, dei posti da visitare e di molte altre cose che non ricordo. Poi si è fatto tardi, ci siamo salutati, e son tornata a casa pensando allo sguardo magnetico di quel bambino e a quanto si conversasse bene coi suoi papà.

Pochi giorni fa, Davide (si chiamava così) è stato male all'improvviso ed è morto.
E io non riesco a non pensare al dolore di quel bambino, di quella famiglia.
Non riesco a non pensare che "per fortuna" è mancato il genitore non biologico, perchè se fosse stato il contrario il bambino sarebbe stato dato in custodia ai servizi sociali.
Non riesco a non pensare che viviamo in un paese in cui quella famiglia non ha il diritto di chiamarsi famiglia.

Buon viaggio, Davide, è stato bello conoscerti, anche solo per un pomeriggio.


mercoledì 7 ottobre 2015

Sei

Quando avevi un anno mi dannavo perchè non mi facevi dormire mai, ma avevo già capito che uno con un sorriso come il tuo è in grado di far dimenticare ogni stanchezza.
Quando ne avevi due, e iniziavi a parlare, mi son detta che ero rovinata, perchè sei come tuo padre, ovvero uno che ha la lingua sciolta, le verve polemica e tendenzialmente vuole l'ultima parola.
Poi, a tre anni, hai iniziato a lamentarti che la mattina ti svegliavo per la scuola materna, e ho intuito che prima o poi la cosa si sarebbe fatta durissima.
A quattro hai iniziato a soffrire di crisi inarrestabili di ridarella tremens e scemite acuta, mostrando doti da circense e uno spiccato senso dell'ironia, e lì ho capito di essere proprio spacciata.
A cinque era comparso tuo fratello, e a quel punto è diventato chiaro quali fossero le tue armi, e il tuo tallone d'Achille, nell'arena di famiglia (e più in generale della vita).

Oggi fai sei anni, e come mi fai incazzare tu, nessuno mai.

Auguri, bambino mio perennemente con la testa altrove, disordinato e distratto; auguri ragazzino biondo e con lo sguardo magnetico di cui sei ancora inconsapevole; auguri fanciullo che non sa distinguere tra raccontare una storia e dire una bugia, che per te il possibile e l'impossibile vivono nella stessa casa e hanno pari dignità, così come il reale e l'irreale; auguri Bruco, che da sei anni per te il mio cuore batte un po' più veloce, e ogni tanto perde un battito perchè intuisce certe preoccupazioni future.
Auguri a te che quando ti chiedo com'è andata a scuola mi rispondi che non te lo ricordi "perchè lo sai mamma che sono smemorato", auguri a te di cui prima sapevo ogni dettaglio della giornata e adesso sembrano più le cose che non conosco, che quelle che conosco.
Lo so che ci siamo un po' persi, che non sono più solo la tua mamma e non me l'hai ancora perdonato del tutto, e so anche che quando ti grido dietro perchè nel tuo zaino sembra essere passato l'uragano Katrina tu pensi che un alieno rompipalle abbia preso possesso del mio corpo... però vorrei dirti che anche oggi siamo sempre noi, quegli stessi due di sei anni fa, e di cinque, quattro, tre, due, uno.
Sempre quei due che si riconoscono al primo sguardo, perchè come scriveva Montale "ognuno riconosce i suoi".

Oggi fai sei anni, e come mi fai felice tu, nessuno mai.

martedì 22 settembre 2015

A casa di Enea

A casa di Orlando si dorme fino alle 10, ci si sveglia stropicciati, non si fa colazione e si comincia la giornata parlando di maestri jedi o di importanti questioni calcistiche.
A casa di Orlando si è sempre in ritardo e si ripetono le cose dalle 5 alle 10 volte, il lunedì si ribadisce che il giorno preferito è la domenica e si sta spesso sdraiati per terra perchè, come ricordava qualcuno, la vita va guardata da svariati punti di vista, compreso dal basso.
A casa di Orlando non si mangiano gli spinaci, si schifa il cioccolato, e si consumano quantità invereconde di pan tranvai e formaggi d'ogni sorta.
A casa di Orlando si è sempre con la testa per aria, ci si dimentica di fare la pipì, ci si infilano le magliette e le mutande al contrario, si sogna ad occhi aperti e si parla da soli. Si leggono valanghe di libri, si cantano canzoni su un tale Massimilia-a-a-a-no l'ortolano messicano e si hanno momenti di scemite acuta e ridarella inarrestabile, intervallati a tratti da arrabbiature furiose e repentine, perchè a volte, si sa, nella vita bisogna farsi sentire e manifestare con ogni mezzo il proprio dissenso.

A casa di Enea ci si sveglia a mezzanotte, alle 3, alle 5, alle 6 ma a volte anche di più (non si sa mai che qualcuno si facesse venire in mente di fare la vita comoda), ci si alza belli tonici, si trangugia mezzo litro di latte, poi dei biscotti, i cereali e se c'è pure una fettina di torta. Si comincia la giornata lanciando il biberon perchè tanto c'è sempre un motivo valido per essere incazzati, quindi.
A casa di Enea si pronunciano solo otto parole, tra cui "mio", "paa" (palla), "tatta" (acqua e/o latte) e "Enea", che sta ad indicare qualunque essere umano sotto il metro e cinquanta, oltre che un chiaro e inequivocabile delirio di onnipotenza.
A casa di Enea si fanno scenate che Eduardo De Filippo scànsati, non si accetta il contraddittorio, tutto ciò che può rappresentare un ostacolo - umano, felino o materiale - viene rimosso senza pietà.
A casa di Enea si picchiano i fratelli, le madri, i padri, le nonne, le gatte, e qualunque ospite osi fare qualcosa di non gradito: a volte a mani nude, secondo la teoria del "questa mano pò esse fèro o po' esse piuma", a volte con oggetti contundenti di svariata natura, tra cui i libri, di cui ancora non si è ben capito il funzionamento nè perchè abbiano delle pagine con dei colori e delle parole.

Qualche volta Orlando bussa a casa di Enea, e viceversa, ma il cohousing non fila sempre liscio.
Spesso capita che mi affacci dalla finestra di casa di Enea, salutando l'Interista affacciato alla finestra di casa di Orlando, e gli chieda come va. Tutto tranquillo, mi risponde.
Poi ci guardiamo e ci chiediamo quand'è che torneremo a vivere a casa nostra, mia e dell'Interista.

Anche se, a pensarci bene, questi due ci somigliano un bel po', e quelle due case lì sono proprio le nostre case. Hanno solo fatto un gran casino coi mobili...
 

lunedì 14 settembre 2015

Davvero semplice

Io, il mio primo giorno di scuola, non me lo ricordo.
E non ho foto che possano aiutarmi a ricordare: all'epoca mia madre, incinta al nono mese di un terzo figlio non previsto, aveva altro per la testa che fotografarmi all'entrata di scuola (e probabilmente è un bene visto che mi mandava a scuola con outfit improponibili tipo 3 pattern di Naj-Oleari assemblati ad minchiam e acconciature che avrebbero saputo ispirare Asimov).
Bisogna anche dire che era il 1984, non c'erano gli smartphone e soprattutto non c'era la mania di immortalare ogni singolo momento topico della vita: detto questo, l'ingresso a scuola del Bruco stamattina l'abbiamo immortalato perchè siamo tutti figli del nostro tempo, anche quando non lo vorremmo.

Io, il suo primo giorno di scuola, me lo ricorderò.
E non perchè gli ho rubato degli scatti mentre trafficava in palestra con lo zaino più grande di lui, non perchè ci siamo fatti fotografare insieme al momento del distacco, ma perchè è stata una bella lezione di semplicità.
Il primo giorno di nido piangevi come un disperato. Il primo giorno di materna eri incazzoso come pochi. Ieri sera, alla vigilia del primo giorno di scuola elementare, era come se non dovesse succedere nulla di particolare.
- Bruco, domattina inizia la scuola, hai capito?
- Sì, mamma...
- Non sei emozionato?
- Sì, mamma...
- Ma allora perchè non mi dici niente...
- Non so cosa dire
- Ok, allora vai a nanna che domattina dobbiamo alzarci presto

Si infila sotto le coperte, lo saluto, vado di là... "mamma!"
Ecco, mi dico mentre torno verso la camera, lo sapevo che c'era qualcosa che doveva dirmi...
- Dimmi, amore
- Ma vieni a dirmi se l'Inter segna???!!

E niente, pure io me le cerco. Perchè preoccuparsi del primo giorno di scuola quando puoi preoccuparti per il derby? "Ok, Bruco". Dopo 5 minuti ha segnato Guarin.

Stamattina, finalmente libero dalle ansie calcistiche del derby, il Bruco si è vestito, ha raccattato il suo zaino, ha raggiunto i cancelli con me e l'Interista, ha preso per mano un compagno di squadra che piangeva ed è entrato nella sua nuova avventura, con quello spirito lieve che ha lui, quella leggerezza calviniana che gli muove le gambe lunghissime in un'andatura dinoccolata e un po' sghemba.

E come è entrato è uscito, raccontando cose, insegnandomi che a volte può essere davvero semplice.


giovedì 27 agosto 2015

La Grande Madre

Dalla propria madre non si può prescindere: piaccia o no, le cose stanno così, e quei mesi passati nel grembo materno sono l'unica esperienza che ci accomuna tutti, un tempo-esperienza condivisi a livello universale dall'umanità, un tempo sufficiente a mutuare un archetipo comune, quello della Madre. Non lo dico io, ne ha parlato a lungo la poetessa e femminista americana Adrienne Rich in un celebre saggio, "Nato di donna", una delle letture che hanno fornito le basi per l'ideazione di una bella e complessa mostra aperta ieri a Palazzo Reale, Milano.
"La Grande Madre" non è una mostra per il grande pubblico, non è una mostra da cui si esce con quell'idea stereotipata e conciliante della madre che molti hanno e continuano ad avere (ma non certo le madri, tranne quello che mentono a se stesse), e non è una mostra (solo) sulla maternità.
Sulla donna, piuttosto, la donna-madre, creatrice e creativa, la donna femminista che ha lottato per conquistarsi il potere negato, la donna liberata e da liberare, una mostra sul corpo femminile, incubatore di miti, di archetipi, di iconografie.
E' un percorso espositivo che richiede tempo, quello della visione e quello dell'approfondimento, perché le opere in mostra sono molte (più di 400), e non tutte di artisti/e conosciuti: c'è parecchio da scoprire, bisogna guardare e leggere, essere disponibili a lasciare che l'arte ci disturbi (ma questo dovrebbe essere scontato).
Nelle 29 sale in cui si snoda il progetto, trovate davvero di tutto: tanta fotografia (perché oltretutto la fotografia è la tecnologia madre del '900 in quanto tecnologia della memoria), scultura, video, pittura, trovate persino delle vere madri con dei veri bambini che imparano a camminare, grazie a Roman Ondàk, che ha portato alla mostra l'installazione vivente #TeachingToWalk (se avete un bimbo tra gli 8 e i 12 mesi potete anche partecipare chiamando questo numero, tel. 02760641).
Tanto per dire, tra le sale della mostra trovate una foto di Roland Barthes in braccio alla propria madre, un autoritratto di Diane Arbus incinta, trovate le disturbanti sculture di Louise Bourgeois, non-bambole che mettono in scena le fasi di una maternità; trovate il dolore su tela di Frida Khalo  e della sua maternità impossibile nella sua Cerva ferita, i volti belli e insidiati dal tempo delle quattro sorelle ritratte dal fotografo Nicholas Nixon, Umberto Boccioni e le madri di Plaza de Mayo, il machismo dei surrealisti e i parti meccanici dei Dadaisti. Ma elencare tutto è davvero inutile.
Storia, non solo dell'arte, e tanta psicoanalisi: tanti mondi quante le opere in mostra, quante le madri nel mondo.
Del resto, come scriveva Elsa Morante "Dalle altre femmine, uno può salvarsi, può scoraggiare il loro amore; ma dalla madre chi ti salva?".
Ah, manco a dirlo, c'è anche lei: la mamma di Psycho, in una foto da cui sembra echeggiare il motto del film "il miglior amico di un ragazzo è la propria madre".
Sogni e incubi per tutti, dunque: avete tempo fino al 15 novembre per visitare la mostra.


La Grande Madre 
a cura di Massimiliano Gioni
promossa dal Comune di Milano Cultura ideata e prodotta dalla Fondazione Nicola Trussardi 
(dal 26.8 al 15.11, al piano nobile di Palazzo Reale, Milano)

lunedì 25 maggio 2015

La scuola ai tempi di Whatsapp

Quando io andavo alla scuola materna, nei terribili anni '80, c'era molta meno attenzione di adesso a certi aspetti dell'infanzia, e senz'altro molta meno partecipazione da parte dei genitori. Non ricordo di aver mai sentito mia madre pronunciare frasi del tipo "oggi devo andare alla riunione della sezione farfalle" o "oggi usciamo prima perchè ci sono le elezioni della rappresentante d'Istituto e devo votare", piuttosto che mio padre dire "questo sabato c'è la giornata di Legambiente, andiamo a dipingere i muri scrostati della tua classe a spese nostre!". Quando mai. Certo mia madre forse non è proprio una rappresentanza corretta della madre media, ma secondo me le abitudini a quei tempi erano molto diverse.

Adesso è il 2015, e tutti hanno Whatsapp.
Su Whatsapp ci sono gruppi di qualunque sorta: c'è il gruppo "future mamme di febbraio", il gruppo "chi viene al parco oggi pomeriggio?", il gruppo "calcetto del lunedì", quello "ex colleghi simpatici"; ci sono i gruppi occasionali (tipo "Tizio compie 40 anni") e quelli perenni (tipo "Tizio ha compiuto 40 anni e siccome alla sua festa ci siamo divertiti di brutto restiamo in contatto su Whatsapp e mandiamoci video cazzoni"), e in tutto questo fiorire abbondare e straripare di gruppi non mancano quelli della scuola dei figli.
Io ho 2 figli e 5 gruppi "scolastici": la chat "Pesciolini nido classe 2014", il gruppo "Classe Verde materna", il gruppo "mamme fuori bacino" per le mamme della materna che hanno iscritto i figli a una scuola elementare in culandia, un gruppo ristretto "mamme del nido" che prende per il culo la suddetta chat "Pesciolini" e un altro gruppo che include i padri, anch'esso generato dalla follia della chat "Pesciolini", e si intitola "Uccidi una mamma".
Poi ci sarebbe il gruppo della "scuola calcio classe 2009" in cui grazie a dio non sono stata inclusa (l'Interista temeva, credo, che avrei potuto fargli fare brutte figure scrivendo cose inopportune).
Queste chat sono l'aggiornamento 3.0 del concetto di assurdo beckettiano: dialoghi infiniti composti di frasi minime o singole parole, con pochissimo senso (del reale), in grado di suscitare il riso, ma anche un profondo senso di angoscia.

Tipo.
"Aiuto, mamme! Dove trovo una maglietta bianca?"
"All'OVS!"
"Ah"
"Ma all'ovs o all'oviesse?"

(forse è su questa domanda che è nato il gruppo "Uccidi una mamma")

Tipo.
"Mamme, mio figlio sta vomitando da ieri, ma è normale?"
"Anche la mia, vomita verde!"
"Poverina! Il vomito della mia invece è giallo!"
"Il mio ha vomitato lunedì ma non ricordo il colore"

(io vi giuro che è tutto vero, e che la conversazione è durata molto ma molto di più)

Tipo.
"Mamme, per la festa di fine anno abbiamo avuto un'idea bellissima!"
(e lì mi son tremati i polsi per la paura)
"Per limitare gli sprechi portiamo il gelato!"
(no qui non posso non intervenire)
"Ma scusate il gelato si scioglie in 30 secondi, a scuola non c'è il freezer..."
"Ma è perchè così non avanzano le patatine!"
"Se ci tieni possiamo portare anche le patatine per tuo figlio"
"Mio figlio non mangia nè le patatine nè il gelato"
"Neanche il mio mangia il gelato..."
"Anche il mio!"
"Il mio nemmeno!"

(Insomma nessuno di 'sti nani mangia il gelato, ma portiamolo, il gelato, alla festa di fine anno)

Tipo.
"Mamme, aiuto, ma la scuola è chiusa per il ponte?"
"Sì, dall'1 al 5"
"Ma quindi anche il 3?"
"Scusate ma è proprio chiusa chiusa?"

(Ma perchè, esiste l'opzione chiusa-aperta?)

Potrei andare avanti. Potrei farvi crepare dal ridere a botte di screenshot. Ma non lo farò, non vorrei essere querelata da qualcuna di queste fini intelligenze che animano i gruppi whatsapp di cui faccio parte.
Dice: cancellati, abbandona il gruppo, rispondigli male, mettile alla berlina.
La verità è che provo una sottile perversione nell'assistere all'incredibile spettacolo della scemenza umana, che invece di usare un mezzo come fonte di utilità quale potrebbe e dovrebbe essere, è capace di creare dei buchi neri di deficienza. Il padre fondatore del gruppo "Uccidi una mamma" dice: non esco perchè mi piace osservare con lo sguardo dell'entomologo. E' così.
E non parliamo delle ricorrenze... lì si scatena l'inferno. Partono video musicali, foto con layout orrendi di fiori e citazioni banali, gattini che sventolano bandiere con scritto "auguri mamma" e ogni sorta di aberrazioni grafiche.
Dovesse esserci un altro diluvio universale per selezionare l'umanità meritevole da quella che no, spero che il signore del piano di sopra abbia ben in testa la cronologia della chat whatsapp dell'universo mondo.
Nel frattempo... chissà cosa mi succede l'anno prossimo, alla scuola elementare.

giovedì 26 febbraio 2015

Un anno vissuto pericolosamente

A tre mesi e mezzo stavi seduto da solo, a quattro volevi mangiare la banana, sempre da solo, a sei hai iniziato a gattonare ovunque, a nove sei finito in ospedale perchè sei un piccolo esibizionista, a dieci hai iniziato a camminare.
Oggi fa un anno che ci sei, un anno vissuto pericolosamente, un anno che mi sveglio cento volte a notte, un anno che ti propongo il ciuccio e tu me lo schifi, un anno che tuo fratello cerca di accettarti - e non è stato facile - in tutta la tua ingombrante presenza.
Tu che appena ti alzi la mattina senti il bisogno di afferrare il martello di legno giocattolo e prendere a martellate tutto ciò che ti si para davanti, dai mobili alla gatta ai biscotti della colazione. Tu che raccogli oggetti in giro per casa e vai a buttarli dentro il water, e se non chiudo la porta a chiave la apri a forza di batterci su. Tu che se mi distraggo un minuto ti sgranocchi i croccantini della gatta - e continui a rifarlo quindi suppongo ti piacciano più dei Plasmon. Tu che stai fermo solo davanti alla pentola a pressione quando fischia, e non c'è verso di tenerti in braccio a leggere un libro, e la cosa mi destabilizza perchè a tuo fratello leggo libri da quando aveva 6 mesi. Tu che sai già calciare il pallone e ridi come un matto quando ti rincorro per casa, con quella camminata alla John Wayne che ogni volta che ti guardo penso a quanta strada farai, e sorrido.
Tu che vivi col rantolo perenne e l'Augmentin è il tuo bicchiere della staffa, che per causa tua l'Interista a breve penserà che ho una relazione clandestina col pediatra.
Oggi fa un anno che ci sei, un anno faticoso e folle di cambiamenti, un anno di scardinamento delle certezze e di sbilanciamento - di nuovo - degli equilibri, un anno che ti tengo in braccio la sera per addormentarti sapendo che dopo due ore sarai di nuovo sveglio, e mi dico che sì, nonostante tutto, ne valeva la pena.
Qui te lo dico e lo penso davvero, farai tanta strada, bambino guerriero.
Auguri Enea.

lunedì 16 febbraio 2015

Figure, figuracce e figurine

A quanto pare è proprio come dicono, coi figli funziona così, che una mattina ti alzi e sono cresciuti, si muovono come i grandi, parlano come i grandi, ti criticano come i grandi.
E' passato un anno dall'arrivo di Attila Enea, e il Bruco è un quasi ragazzino altissimo, con delle gambe lunghe lunghe, tutto dinoccolato e una parlantina che a dir poco ti spiazza.
Ha iniziato a leggere, disegna esseri umani che non sembrano più alieni (a parte qualche dito in più ogni tanto) e un paio di settimane fa l'abbiamo iscritto alla scuola elementare.
La mattina, quando viene in sala ancora in pigiama con l'aria sconvolta e mi dice "Mamma ma io avevo ancora sonno" mi chiedo che fine abbia fatto quel nanerottolo morbidoso che si svegliava cento volte a notte. Poi mi ricordo che ce n'è uno identico, ancora più morbidoso e ancora più insonne, che vaga per casa, ma questa è un'altra storia.
Negli ultimi mesi, mentre io mi occupavo del figlio 2, quello che non dorme non mangia ed è sempre malato, il Bruco si è buttato sull'elemento emotivamente libero della famiglia e si è tragicamente calciofilizzato. Va agli allenamenti, gioca partite senza vincerne mai una, mi parla di compagni di spogliatoio che io non conosco e soprattutto ha iniziato a completare l'album delle figurine Panini con tutti i giocatori dell'Universo Mondo. Mi fa domande imbarazzanti tipo "qual è la tua squadra preferita" e corre su e giù per casa come un ossesso mimando azioni con un gergo tecnico che lèvati.
Contando che l'Interista è uguale e che l'unenne si emoziona solo quando vede una palla (e quando prende a martellate i muri, nda), diciamo che fra tre anni la mia vita sarà un incubo su sfondo verde, erba o sintetico non importa.
L'Interista dice di non preoccuparsi, che è solo una fase.
Poi capita che torni a casa e veda che suo figlio ha attaccato sul muro del bagno una figurina doppia della Juve e abbia un mancamento ("Ma papà, le doppie devo attaccarle da qualche parte!" "Ok, Orlando, la mamma ti compra un quaderno apposta così ci attacchi le doppie e poi lo chiudi e lo riponi in un angolino della libreria, così evitiamo al papà il ricovero coatto alla neuro del Niguarda). Ma dai, Interista, è solo una fase!
 E in effetti il Bruco è sempre il solito ragazzino curioso che resta incantato a teatro e legge i miti greci e quelli nordici e piange come una fontana quando guarda La Bella e la Bestia e la bestia sta per morire.
E' sempre il solito ragazzino spontaneo e genuino che incontra il vicino di casa e gli dice:
"Ciao Guido, sai che mi sembri uguale a Palacio? Sei pelato come lui"

E niente, chiudo la porta e mi metto a ridere. La sua simpatia non è una fase, per fortuna. Lui è proprio così.

giovedì 15 gennaio 2015

ilmattinohaloroinbocca

Ti alzi alle 6, a volte anche prima, dopo notti che durano poche ore e mille risvegli.
Con gli occhi impastati cerchi il pavimento tentando di impedire a tuo figlio di buttarsi giù dal letto.
Sollevi i suoi 11 chili di morbidezza e lo porti di là, per impedire che svegli il resto della famiglia, mentre lui cerca di depilare la gatta, di sfondare la porta del bagno, di infrangere il vetro del forno con la mazza da golf giocattolo di suo fratello.
Ti prepari un caffè e lo infili nel seggiolone (il bambino, non il caffè, di solito), ma proprio in quel momento lui caga e si lorda fino alle ascelle. Allora vai in bagno, lo lavi e lo cambi mentre lui si contorce e strepita come una delle serpi sulla testa di Medusa. Torni di là e il caffè ormai è freddo ma lo bevi lo stesso, mentre lui cerca di infilarti in bocca il suo plasmon smaciullato.
Poi arrivano le 8, e inizia la corsa per essere pronti in tempo. Sveglia questo e quello, vestili, colazionali, cerca di non inciampare sulle macchinine sparse ovunque, siediti per metterti le scarpe e scopri che sotto il tuo deretano c'è un mondo che neanche al Toys.
Urla per farti ascoltare e sentiti rimproverare perchè sei esaurita, e in effetti lo sei, cazzo se lo sei, perchè a breve devi anche andare a lavoro e produrre delle frasi di senso compiuto sulla qualità dell'aria e sui pronunciamenti del Consiglio di Stato.
Prima di uscire sentiti tirare per la giacchetta da tuo figlio grande che ti dice "Mamma, non mi piace la scuola". E lo dice con l'aria di uno che ci ha pensato molto e sa cosa sta dicendo. Va ancora alla materna, e non sa cosa sia davvero la Scuola, quella in cui peraltro alle 8.20 devi essere già in classe e non in cameretta a scegliere se portare con te i Gormiti o gli Avengers.
Ti metti in tasca un vago senso di fallimento, t'infili il cappotto, ti dimentichi il cappello proprio oggi che fa freddo ed esci. Non sei truccata, non sei pettinata, le occhiaie sono il tuo unico accessorio.
Entri al nido, per lasciare quello piccolo alla maestra.
Eviti di chiederle qualcosa, ma lei ti guarda fisso e ti dice: "Suo figlio ha un carattere un po' particolare... è un po' impositivo..."
"In che senso?"
"Nel senso che ogni volta che non faccio qualcosa che vuole lui mi guarda come se mi stesse dicendo mo' te meno!"
"Ah. Sì, lo so, è un bambino un po' fisico..."
"E' bello aggressivo"
"Ah. Ma non è che picchia gli altri bambini, vero? No perchè noi siamo gente pacifica..."
"No no, solo qualche pestone a noi maestre".

Uno ha 5 anni, e non gli piace la scuola. (materna! quella dove giochi tutto il giorno!)
L'altro ha 10 mesi, e mena le maestre.
Poi dice che per i figli fai tanti sacrifici, ma sai le soddisfazioni.
#dovehosbagliato