venerdì 5 giugno 2020

Il diritto di piangere

E così ci siamo, là dove il futuro diventa passato e il presente ti è sfuggito via come un pesce d'argento. Un pesce lungo 5 anni, uno splendido marlin che abbiamo seguito in lungo e in largo, non per una caccia ma per il fascino del viaggio. E così è l'ultimo giorno della scuola elementare, e stavolta non lo so davvero se le parole sono abbastanza per dire tutto. Sarebbe stato già difficile di per sè, figurati con una pandemia che ha interrotto la scuola a metà anno, lasciandoci in un limbo digitale in cui si sono fatte molte cose ma dove non si può fare l'unica che forse aveva un valore, ovvero compiere il rito di passaggio: stare insieme per l'ultima volta, essere classe per una volta ancora e poi più, trovarsi nel cortile della scuola dove "remigino" hai ricevuto un quaderno e una sacchetta dai grandoni di turno, cantare, correre alla rinfusa, piangere. Forse rivendico questo, il diritto di piangere. Di guardare incarnato il tempo, i suoi danni e le sue meraviglie, di restare stordita di fronte al "potente spettacolo che continua", citando lo zio Walt. Non è solo un fatto di altezza, un fatto oggettivamente impressionante visto che sei entrato che eri un metro e una banana e ne esci alto come la tua maestra. E' sapere cosa ci sta nel mezzo, tra il prima e il dopo, di cosa è fatto ogni centimetro acquisito, ogni parola in più, ogni competenza. Non esiste dizionario che sappia spiegarlo. Siamo stati molto fortunati, ragazzino. Non capita a tutti di avere due maestre speciali che ti accompagnano per cinque anni cinque senza soste, presenti anche nella distanza. Soprattutto in una scuola che sembra perdere pezzi e importanza, troppo spesso sacrificata sugli altari vuoti della politica (e di una poco lungimirante economia). Quando vi ho chiesto cosa avete imparato in questi anni la risposta è stata unanime, ed eravate pure straniti nel dirlo: "a stare insieme", e cos'altro bisognerebbe imparare, a scuola, se non a essere comunità, a diventare società? Non serve un libro ma maestri capaci, per fare l'educazione civica. Che viene forse da sè quando ci si prende cura dell'essere umano, gli si sta accanto mentre cresce e impara - non fatemi tirare in ballo l'etimologia latina del verbo educare perchè non serve, è persino più semplice. Con delicatezza e con forza, che le due cose non si escludono ma si sostengono. Con l'interesse sincero di sapere chi hai di fronte, e dargli una chiave in più per diventare se stesso. Non capita a tutti una scuola grande e verde, con un cuore che batte in molti posti: nei gradoni del suo anfiteatro, nel linoleum della palestra, tra le zucchine dell'orto di nonno Carlo, dentro le aule popolate di colore e carta e disordini vari, nel cortile con l'asfalto increspato dai molti arrivi e dalle troppe partenze. Quando siete felici fateci caso, ha detto qualcuno, e non possiamo dire di non averlo fatto: siamo stati felici e ci abbiamo fatto caso.
E ora, ora è giugno ed è finita senza esserlo: dopo tre mesi quasi quattro di didattica a distanza, dove mancano i corpi, la conditio sine qua non per imparare quello stare insieme che dicevamo, ci salutiamo in una videochiamata di classe su meet. Non ci sono remigini a cui passare il testimone, non ci sono i canti e il sole a picco nel cortile, le corse a giocare ignare del concetto di ultima volta, la recita di fine anno, la musica a sottolineare. Non ci sono le lacrime che ci dovevano essere, perchè ogni fine ha il suo tributo di tristezza, soprattutto quando è approdo di una traversata felice, e ogni lutto richiede di essere elaborato. Piango doppio, ragazzino, per quello che lasciamo e perchè non abbiamo avuto modo di celebrarlo a dovere. Guardo le foto, spulcio i quaderni, trovo una pagina più eloquente di me. Viene da un quaderno di terza, in alto è riportata in tratto-pen azzurro una poesia di Anne Sexton: "Uova e parole / vanno maneggiate con cura / una volta rotte / non si possono / riparare". Commento tuo: "Questa frase mi è piaciuta molto perchè è molto vera. Non solo le uova si possono rompere, le parole usate male possono infrangere o ferire i cuori degli altri". Ed è proprio così, anche le parole sono corpi, e bisogna impararne la fisicità, bisogna sentirle dire e collidere fra loro, nascono dai corpi, ne sono inseparabili. E così è l'ultimo giorno della scuola elementare, e stavolta non lo so davvero se le parole sono abbastanza per dire tutto. Gli sarebbe servita una voce rotta che le dice, delle orecchie per ascoltarle tra il vocìo di altre cose, delle spalle che s'incurvano a schermirsi, un petto che trema, gli occhi e qualche lacrima. Il diritto di piangere.
Tu ridi, alto e capellone, non riesci davvero a capire cosa significa questo ultimo giorno. O forse lo sai meglio di me, e il tuo pensiero è già là, dove il futuro diventa presente. In un'altra scuola, un'altra aula, con altri corpi, altre parole. So che hai imparato a maneggiarle con cura, che sei attrezzato per un nuovo viaggio.

(con tanta gratitudine, e molto piangere, a Gabriella e Laura)



lunedì 4 maggio 2020

Figurati

Era il tuo sesto compleanno, e abbiamo festeggiato coi pochi soliti buoni amici, ma già da qualche giorno l'atmosfera era strana, per le strade, nelle case, in rete. Il giorno dopo hanno chiuso le scuole, e con gli amici ci ridevamo su, pensa se restassero chiuse anche settimana prossima!, t'immagini, figurati, non ci voglio neanche pensare. Se a gennaio mi avessero detto che di lì a poco sarei rimasta serrata in casa 24 ore su 24, 7 giorni su 7, con l'intera famiglia al completo, sarei scoppiata in una risata isterica o sul mio viso sarebbe comparsa un'espressione alla "What you talking about, Willis". Mi sembrava già faticoso quando capitavano un sabato o una domenica di gestione solitaria.  
Figurati.
E ora lo è, "figurato". Ora nei miei occhi ci sono immagini che prima non erano pensate, pensabili.
Ci siamo noi nel cortiletto di cemento sotto casa, io che faccio bolle di sapone con un attrezzo oblungo e fluo, voi che giocate a scoppiarle con le spade laser. Per ore. Lunghe ore strane e deserte.
Ci siamo noi nella cucina minuscola che impastiamo le pitas, friggiamo le mele, stendiamo la pizza, decoriamo la crostata, sforniamo i biscotti, spennelliamo d'uovo i panini da cuocere, cuciniamo al ritmo che avrebbe una trattoria aperta sempre pranzo e cena. 
Ci siamo noi che passiamo l'aspirapolvere, e poi lo straccio, e poi l'aspirapolvere, perchè siamo sempre in casa e il pavimento è sempre sporco. Ci sono le nostre briciole, le righe di pennarello, le calze spaiate scomparse negli angoli, i fogli un po' scritti un po' no, i libri aperti chiusi, l'esercito dei cloni Lego, i soldatini di plastica che vorrebbero essere di piombo e invece ognuno è quello che è, e noi vorremmo essere ordinati ma non lo siamo, vorremmo essere leggeri ma pesiamo troppo.
Ci siamo noi (sempre noi) che rileggiamo ennemila volte tutti i libri della nostra biblioteca, e registriamo videoletture per gli amici, ma poi un giorno smettiamo di registrare, perchè anche delle cose belle ci si stufa. Ci sono io che ordino nuovi (troppi) libri, tu che ascolti le favole lette da altri, tuo fratello che disegna, tuo padre che gli spiega le guerre persiane.
Ci sono stanze troppo piccole per contenerci tutti, per contenere le videolezioni, le call infinite snervanti, le ansie, i corpi troppo fermi, l'illusione degli aperitivi a distanza con gli amici.
Ci sono io che salgo e scendo le scale per 30 piani, la nostra gatta che sogna di essere sola in casa, tu che resti muto in videochiamata con i compagni di classe, la classe che mai più tornerà perchè a settembre vai in prima elementare, e qualcuno si permette pure di dire che forse no. 
C'è tuo fratello che imbraccia la chitarra svogliato, il suo maestro non gli fa lezione online perchè è un po' all'antica, e lui a quelle corde mute ci resta appeso. 
Noi che guardiamo un film degli anni Ottanta, voi che con un vecchio skatebord fingete di essere su una barca e pescate pesci bottiglia.
Io che leggo e fotografo poesie, poi leggo articoli e li condivido, poi leggo articoli e li abbandono, i miei occhi che scorrono numeri, i miei occhi pieni di immagini che non erano pensate, pensabili.
Abbiamo avuto in casa il virus, ma non la sua paura. 
Abbiamo rispettato le regole, soprattutto quelle non scritte.
Dal tuo sesto compleanno sono passati due mesi. Ora abbiamo molte cose che non avevamo, negli occhi. E qualcuna nel cuore, che sta un po' scomoda e ne sentiamo le fitte.
Tu parli in continuazione, come chi vorrebbe dire qualcosa d'importante ma non ci riesce e ci gira intorno senza sosta, cercando il modo. Tuo fratello non dorme più, e questa notte mi ha detto con voce sottile "voglio tornare a scuola". Di analisi e discorsi filosofici, antropologici, sociologici, statistici, ne ho lette e sentiti troppi.
Il fatto è, mi dico, che quando leggi una storia (o la guardi o la ascolti) non ti chiedi mai perchè stia andando in quel modo. La segui e basta, fino alla fine e oltre.
Noi siamo in una storia, la nostra, mia e tua e sua, e loro. Non possiamo che seguirla, e magari - questo sì - sognare che vada nella direzione in cui vorremmo andasse.
E ricordarci che i sogni, quelli collettivi ancor più che quelli solitari, sono cose molto potenti.

martedì 10 dicembre 2019

Come funziona questa cosa

“Ho capito, mamma, come funziona questa cosa della morte: prima diventi uno zombie, poi uno scheletro nella tomba e alla fine un fantasma”
“Ah. E finisce così? Resti un fantasma per sempre?”
“No, poi rinasci e puoi diventare un animale o un mezzo di trasporto”

Et voilà, il sincretismo: un po’ di ateismo, un po’ di buddhismo, meccanicismo quanto basta, un tocco di cattolicesimo e naturalmente il dio cinema che ci ha salvato tutti, prima o poi. Ognuno davanti alla morte reagisce a modo suo, si sa, e fino ad oggi non abbiamo avuto bisogno di chiederci quale fosse il tuo.
Poi è successo che la nonna è mancata. Volata in cielo, o forse divenuta un fantasma o un tram arancione: razionalizzi, perché questo è il tuo talento e anche il modo con cui eviti il dolore, lo rendi tollerabile, mentre tuo fratello piange, e lo fa come dev’essere fatto, come al tempo dei greci, intonando un thrênos, un pianto rituale, lasciando che il corpo mostri tutto, tutto il soffrire.
Che c'è un tempo, nel tempo, è un concetto difficile da capire. Finché siamo vivi, esiste di fatto solo il presente. Ma dentro il presente molti tempi battagliano fra loro. Il tempo in cui aspettiamo un treno in stazione, quello in cui scriviamo la letterina a Babbo Natale, il tempo in cui t’infili i calzettoni per tentare un canestro che non arriva, il futuro di una cena domani, il passato di una telefonata mancata ieri che non smette di farti male oggi. Finché siamo vivi, e la nonna non lo è più, è solo un giro di orologio, attesa dell'alba per l'insonne.
Di tempo con lei ne abbiamo diviso parecchio, soprattutto tu, l’ultimo, il più piccolo, il più logorroico, il preferito, l’ultimo spazio integro dentro una vita che l’aveva delusa un po' troppo. Questo tempo è finito, e tu razionalizzi, perché chiederti come si fa a vivere senza una persona che ami è troppo spaventevole, come si fa all’uscita di scuola a vedere le nonne degli altri sapendo che la tua non può arrivare, come si fa a vivere senza la pasta al formaggio fuso che solo lei te la faceva a perfezione, come si fa a non essere più il preferito di nessuno.
In questi ultimi mesi ho cercato di darti degli strumenti, perché risposte non ne ho neanche io che di esperienza in questo campo ne ho parecchia. Ma abbiamo letto libri meravigliosi, di una volpe che si addormenta circondata dagli amici del bosco, di una regina che intraprende un lungo viaggio e non ha paura di incontrare il mostro. Abbiamo cercato delle immagini che potessero tenerci compagnia quando le parole sarebbero mancate. E abbiamo visto, abbiamo visto tutto, perché ci sono cose a cui bisogna dare l'esatto nome: l’assenza (via via più grande), la fatica di camminare, il corpo dimagrito, le garze, i fili, le medicine. L’abbiamo guardata negli occhi finché abbiamo potuto farlo, senza nascondere nulla, “perché è diverso essere liberi di camminare verso il futuro, anche se con cicatrici e ferite, piuttosto che non riuscire a muoversi per paura di non farcela a sopravvivere”(*).

Perché è così che funziona: anche se ti sembra incredibile, si sopravvive, e bisogna farlo sapendo quanto ogni tempo è prezioso, anche quello noioso in cui devi allacciarti le scarpe da solo, e non ne hai voglia.
E poi ricordati, quando un gatto ti si accosta e miagola, o passa sferragliando un tram arancione, che i ricordi sono ovunque vogliamo metterli, e che il modo in cui guardiamo le cose fa sempre la differenza.
E’ così che alcune persone restano, e non vanno mai via.


(*) cit. Alba Marcoli

venerdì 20 ottobre 2017

Otto

Anche se ultimamente ci scrivo di rado, sul blog non sono mai mancati gli auguri per il tuo compleanno: forse l'unica cosa in cui non ho mai sbagliato le tempistiche, il buon compleanno è sempre arrivato puntuale. Quest'anno dice che ero troppo impegnata: prima un pigiama party di ottenni che ha trasformato il soggiorno in un campo da calcio, poi un brunch party al parco in una domenica d'ottobre mascherata da luglio inoltrato, infine un festeggiamento casalingo con quelle candeline che si riaccendono all'infinito.
Praticamente come quei matrimoni marocchini che durano sette giorni e si va avanti a oltranza: non so se ho più sfornato muffin o impilato tramezzini, so solo che non ho avuto il tempo materiale di scrivere due righe qui. Lo faccio oggi, dopo una settimana in cui sei via a "scuola natura", per la tua prima esperienza lontano da casa, così posso anche dirti: torna presto!
Perchè tuo fratello, che da una settimana dorme nel tuo letto, non è felice come quando ci sei tu.
Perchè tuo padre la mattina, non dovendoti accompagnare a scuola, poltrisce senza ritegno e questo non mi sembra giusto (!!!!).
Perchè i pomeriggi saranno anche logisticamente meno complicati, ma la mia bicicletta mi sembra così triste senza le tue lunghissime gambe appollaiate lì dietro.
Perchè quando apparecchio per cena, la geometria sentimentale del nostro tavolo quadrato non mi torna.
Perchè a casa di Orlando, se non c'è Orlando, manca qualcosa.
E anche se sono davvero tanto felice per la tua fuga piena di esperienze nuove e divertimento, questa piccola incursione in un futuro in cui vivi una vita parallela che mi comprende in piccolissima parte mi ha terrorizzata a morte. Sarà che ultimamente l'argomento tempo rientra tra i miei demoni quotidiani. Ma insomma, ecco, non sono pronta.
Torna. Torna, e stiamo un po' qui seduti, sul divano di casa, mentre ti faccio domande a cui rispondi a spizzichi, mentre sei perso in chissà quali mondi. Mentre tuo fratello ti saltella intorno e ti infastidisce, mentre pizzichi le corde della chitarra e pensi a quale giocatore ti manca per completare la tua raccolta di figurine.
E auguri, anche se era due settimane fa.
Che il tempo corre velocissimo, ma non dobbiamo avere paura di stargli alle calcagna.



venerdì 1 settembre 2017

Filastrocca del primo settembre

DUE MAMME, TRE PAPA’

C’era una volta un “c’era una volta”:
cominciava una fiaba balzana
che era nata piuttosto giovane
ma voleva essere anziana.

Dentro c’era (una volta, e per sempre)
un bambino dal naso un po’ buffo
lo guardavi negli occhi profondi
nei sorrisi potevi farci un tuffo

Un mattino che il sole non c’era
fece “Mamma, vorrei dirtene una” 
e tirò la gonnella leggera
attirò quel volto di luna

“Sei la mamma più bella, confesso
ma ne vorrei un’altra lo stesso
e poi anche, se non ti dispiace,
tre papà, dall’ampio torace”

Quella mamma interruppe la zuppa
lasciò il fuoco, il mestolo dentro
mani ai fianchi come un capotruppa
come cuore colpito nel centro.

“Ah, ti serve una madre di scorta?
E di padri ne vorresti tre…
spiega un po’!” facendosi accorta,
chiese al bimbo davanti a sé.

“Una mamma in più può servire
quando il sole al mattino si alza
ad alzarsi per farti dormire
a giocare quando il sonno incalza”

“E perché tre papà?” chiese lei
che già sorrideva al bambino
(e prendeva anche questo momento
ne faceva un ricordo piccino)

“Se dobbiamo giocare a pallone
 di squadre me ne servono due
e se arriva un’ammonizione
farò goal con che gambe, le tue?

Un portiere e un centrocampista
fanno due e con me sono tre
poi un quarto, del calcio un artista
e la partita si fa da sé”

Una mano si stacca dal fianco
copre al volo una storta risata
c’era una volta (e sta ancora ridendo)
una mamma assai fortunata.

mercoledì 26 luglio 2017

Gelosia canaglia

Un mostro dagli occhi verdi che dileggia il cibo di cui si nutre, il buon vecchio William la definiva così. E ultimamente sembra aver affittato una stanza a casa nostra. Nata insieme a tuo fratello, quasi a corredo, è rimasta a lungo silente, un'ombra, un sospetto, un momento.
Ora ha preso possesso dei tuoi gesti e delle tue parole: preferisci lui a me, questo è il refrain di ogni giornata, e se per un po' mi son detta che è normale, tra fratelli, la gelosia, adesso comincio ad avvertirne l'ingombro.
E' vero, tuo fratello è il mio preferito. E' facile preferirlo: è ancora un cucciolo, non sbaglia un congiuntivo, è autonomo, ama i libri, ama nuotare, colora dentro i bordi, è capace di entusiasmo per le piccole cose, canta a qualunque ora del giorno con voce baritonale e mimica da attore consumato, non ultimo è esteticamente identico a me. E' capriccioso, vero, ma ha 3 anni e mezzo e ci si passa sopra.
Tu, che non sei mai stato capriccioso e che sei un clone di tuo padre (però più bello), sei tutt'altro che facile: hai certe asperità che - all'alba dei 40 lo so con certezza - niente potrà smussare, parli poco e spesso non rispondi a domande ripetute, non spieghi, sei vittima di attacchi di rabbia difficili da contenere. Sei permaloso, cocciuto, poco propenso alla lettura, pigro e trasandato. Vivi per aria, in mondi a noi inaccessibili, e spesso ti troviamo sdraiato per terra, perso in chissà che universi.
Sei definitivamente, tragicamente, inspiegabilmente uguale a me, nel carattere, nei difetti, nella lentezza e in un sacco di altre cose per cui mi riesce difficile preferirti, perchè preferire se stessi è sempre difficile, soprattutto per quelli come noi che si sottopongono a perenne autocritica. Che io, all'alba dei 40, ancora non mi sono accettata del tutto e la lotta è costante.
Non posso preferirti, è vero, ma posso amarti, amarti in maniera sbilenca e passionale, amarti catullianamente, proprio come amo me stessa, a giorni alterni, d'amore puro e inclassificabile, quello che non conosce compromessi e se li conosce li schifa. E lo so, me ne accorgo, che nei miei occhi, guardacaso verdi, vedi ondeggiare quel mostro, e la gelosia ti afferra.
Cosa sarà meglio, essere preferito o essere amato pazzamente? In ogni caso, preferire è facile, amare no. Perciò ti chiedo scusa in anticipo, Bruco, della gelosia che involotariamente ti provoco: e sappi che quando sbrocco perchè stai sdraiato sul pavimento invece di "fare qualcosa di utile", in realtà sto sbroccando con me stessa, io che passo le giornate a fare cose utili ma ho una voce dentro che mi dice "sdraiati, sdraiati sul pavimento e resta, resta e sogna".
Com'era? Siamo fatti della materia di cui sono fatti i sogni... e nello spazio e nel tempo di un sogno...


domenica 26 febbraio 2017

Tre

Quando sei nato mi sono detta: "Devo resistere tre anni. A tre anni c'è la svolta".
Come se tre anni fossero qualcosa che puoi ponderare, a cui puoi dare dei confini fisici, qualcosa che puoi dominare.
Ma col tempo si sa, e coi figli - che sono una delle più perfette emanazioni del tempo - anche, è tutta una questione di percezioni. Giornate di febbre che sembrano interminabili, mattine in cui ti alzi e li guardi e ti dici che no, non può essere vero che tu sia già così grande (questi sono i momenti "vecchia zia in occasione di festività o celebrazioni", non dobbiamo vergognarcene, prima o poi siamo tutti vecchie zie).
Insomma ci siamo, Né: oggi sono tre anni, di compressioni e storpiamenti del tuo nome (sei stato Neni, Nessi, Enesito, Ene e chissà cos'altro), tre anni di compressioni e calci in un letto che sarebbe piccolo anche in king size, tre anni di incazzature e stupori per il tuo carattere e le tue doti, sorprendenti in positivo come in negativo.
Certo, ormai sei grande. Vai in bagno da solo e pretendi che la porta venga chiusa. Pretendi anche di pulirti da solo, e ti giuro che lo apprezzo tantissimo, ma forse meglio rimandare a quando avrai capito la meccanica e la fisica del rotolo di carta igienica. Che qui scopriamo altri pianeti, ma in qualche modo dobbiamo sempre passare da lì, per crescere: imparare ad autoaccudirci.
Ormai sei grande, parli come tuo padre, meglio di tuo padre, e soprattutto più di tuo padre, e questo va quasi oltre le leggi della natura, perchè non è davvero possibile che un essere così piccolo parli così tanto e così a lungo, e con così tanti argomenti, senza che la voce perlomeno gli si abbassi.
Persino la tua maestra ogni tanto ti implora "Enea, ti prego, stai zitto". Ma tu hai proprio l'urgenza autobiografica, si capisce.
Ormai sei grande, vuoi fare i compiti come tuo fratello, scrivere come tuo fratello (peccato che lui scriva sui quaderni e tu abbia reso il nostro divano la brutta copia di un quadro di Keith Haring), vuoi andare in piscina come tuo fratello, vestirti come tuo fratello, giocare a calcio come tuo fratello (e invece tuo padre sta inspiegabilmente per regalarti un canestro da muro). Forse vuoi essere come tuo fratello conscio del fatto che nulla ti è andato come a lui, il primo figlio, l'incredibilmente bello, il simpatico, il dolcissimo, quello che ha avuto tutto, dai corsi di musica a quelli di acquaticità passando attraverso i laboratori di cucina vegana, i workshop su Munari e gli spettacoli d'opera per bambini alla Scala. No, tu sei il secondo. Un po' brutto anatroccolo, un po' meno simpatico, parecchio più rude. Per te niente corsi nè teatri, solo dei grandi abbonamenti all'amoxicillina e al doposcuola.
Ormai sei (quasi) grande.
E' che poi scende la notte, leggiamo un libro, ti rimbocco le coperte, e quando torno a spegnere la luce un paio d'ore dopo... ti trovo nel letto di tuo fratello, accozzato, a voler rimarcare che, sì, siete diversi, ma respirate dello stesso respiro.
Perchè sei grande, ma hai dei residui di piccolinità - mi perdoni il neologismo osceno l'Accademia della Crusca, ma l'amore conosce parole che la linguistica non conosce.
E allora nel buio ti catapulti nei nostri letti, in quello del Bruco o di mamma e papà, perchè l'assenza di luce ti fa paura e - sospetto io - anche tutto quel silenzio, l'assenza di parole.
Strisci al nostro fianco e cerchi il ciuccio, ultimo residuo della prima infanzia, ti ci aggrappi perchè, me l'hai anche detto, forse non vuoi davvero diventare grande.
Sei troppo intelligente per non capire che diventare grandi è bello, sì, ma anche una fatica immonda, il preludio al sopraggiungere di rotture di cazzo a valanga.
E dall'alto di queste valanghe di cui modestamente sono piuttosto esperta, Enea, voglio dirti questo: i brutti anatroccoli sono dei gran fighi anche prima di diventare dei cigni. Anche se sono logorroici, anche se hanno paura del buio e anche se la gente non ha ancora imparato ad apprezzarli.

"Enea, da cosa vuoi vestirti a carnevale?"
"Da gelato"
"Da gelato?!? Ma perchè?"
"Perchè così tutti mi leccano"

Diciamocelo: a uno come te non servono mica, i laboratori per stimolare la creatività.
Tanti auguri, bambino mio quasi grande.