martedì 20 dicembre 2016

Il calcio (non) è uno sport da stupidi

A volte piove, di quella pioggia che non è violenta ma insiste ore e rende l'erba così bagnata che pensi non asciugherà mai più. A volte, d'inverno, c'è un sole anemico che non scalda niente ma mette di buonumore, e però fa freddo, così freddo che dopo un po' fai fatica a piegare le dita delle mani, e quelle dei piedi forse non ce le hai più.
Qualunque tipo di giorno sia, se è giorno di allenamento si va in campo. Orlando esce da scuola con quelle sue gambe lunghe e dinoccolate, e trotta verso gli spogliatoi con la borsa che è più grande di lui. E' lento, ci mette un sacco: s'infila la termica, le calze arancioni che gli arrivano alle ginocchia, i parastinchi no "perchè neanche papà li porta, mamma". Poi, quando non li dimentica, afferra i guantoni da portiere, e va, insieme agli altri. A giocare, su un campo, al gioco del calcio.
Da tre anni, ormai. Con lui, insieme agli altri bambini, un piccolo gruppo di giovani allenatori che studiano all'università, scienze motorie o altro, pagati due lire, ma si vede che non sono lì per i soldi.
Due volte a settimana, e poi nel weekend una partita o due, tre, un torneo.

A me il calcio non è mai piaciuto. Mio padre ci giocava, credo fosse un terzino. Tifava la Juve, leggeva la Gazzetta ogni santo giorno, e si dispiaceva perchè nessuno dei suoi figli maschi aveva ereditato le sue gambe e la sua passione. Il padre dei miei figli di calcio vive, tanto che non capiamo più dove finisce la vita e inizia il lavoro. Probabilmente su quel confine sta un campo di calcetto dove va a giocare con la squadra una volta a settimana, nonostante tutto dica che è ora di smettere.
A me il calcio continua a non piacere, neanche lo capisco, non so quante volte mi sia fatta spiegare cos'è il fuorigioco.
Ma quello che mi piace ancora meno è sapere che quando un compagno di Orlando chiede ai genitori di andarci a giocare questi gli rispondano "No, il calcio è un gioco da stupidi".
Non mi piace il pregiudizio, non mi piace lo stigma.

Tra le persone che frequento sono in tanti a pensarla così, e io penso sinceramente che non sappiano di cosa parlano. Penso che nel loro immaginario ci siano frotte di genitori idioti che si accapigliano sugli spalti, come a volte è stato riportato anche dalle cronache. Penso che i genitori idioti li trovi anche ai bordi di un campo di basket o a un incontro di judo. E che forse, come dice l'Interista, è solo una questione statistica. Più bambini, più genitori, più idioti.
Soprattutto penso che quelli de "il calcio è un gioco da stupidi" non abbiano rispetto per tutti i bambini come Orlando, e sono tanti, che giocano perchè gli piace, che s'impegnano, che sono disponibili a imparare, che sono capaci di divertirsi. Non hanno rispetto per i genitori come me, che lavano scarpette e calzoncini venti volte a settimana, che si alzano prima per preparare una borsa, che si caricano il figlio in bici e lo accompagnano al campo, che rinunciano a fare altro nel fine settimana perchè c'è un torneo. O forse in virtù di questo giudicano un'idiota anche me, chissà.

A me il calcio non piace, ma mi piace sapere che mio figlio, oltre la scuola ca va sans dire, s'impegna in qualcosa, impara, sta all'aperto, si diverte, costruisce relazioni.
Amo vederlo quando si tuffa per parare un goal, amo il suo sguardo assorto mentre s'infila i calzettoni, amo persino quando esce dallo spogliatoio dopo la doccia e mi farfuglia che ha perso un pezzo di divisa, perchè lui è forse più un sognatore che un calciatore, ma questo non conta.
Lui è soprattutto un bambino a cui piace giocare al gioco del calcio. Forse si stancherà domani, forse andrà avanti fino a quarant'anni (e oltre?) come suo padre, come il mio che non c'è più e che avrebbe voluto accompagnarlo, ne ho certezza, a ogni partita.
A me il calcio non piace, ma mi piacerebbe vivere in un mondo in cui giocare a pallone non sia considerata una cosa da decerebrati, un mondo in cui mio figlio può interessarsi di calcio e anche a Mozart, parare rigori al pomeriggio e leggere i miti greci la sera.
Il fatto è che io di genitori che si accapigliano sugli spalti in tre anni non ne ho ancora mai visti.
Di genitori idioti ne ho visti invece parecchi.
E, signori, la maggioranza di loro non era a bordo campo.


venerdì 7 ottobre 2016

Sette

Qualcuno dice che crescere sia la cosa più difficile del mondo.
Perchè ci obbliga a lasciare le nostre zone di conforto, a esporci, guardarci nuovi, non riconoscerci.
Perchè non si smette mai, e chi s'illude di aver finito semplicemente si perde il meglio.
Ma ultimamente penso che ci sia qualcosa di più difficile del crescere: veder crescere.
Una cosa da diventarci matti, che contiene in sè tutto il mistero dell'evoluzione del genere umano.
Sono sette anni oggi, Bruco, che ti vedo crescere, e non mi capacito.
Non di "quanto sei cresciuto", che queste son cose da vecchie zie - con tutto che hai quasi il mio stesso numero di piedi ed è una cosa abbastanza inquietante.
Quello di cui non mi capacito è la distanza che il tempo ha messo tra noi: inseparabili prima, poi vicinissimi, poi vicini, poi sempre meno, fino a non riconoscere a volte certi tuoi modi di fare, alcune passioni, determinate espressioni. Che fino a un certo punto mi pareva proprio di sapere tutto, sapere esattamente da dove proveniva ogni cosa di te.
Ma dice che è così che funziona, che per crescere bisogna anche differenziarsi, allontanarsi, separarsi.
Cosa ti devo dire, ragazzino mio? I grandi amori sono difficili da gestire, sia quando ti bruciano col loro calore, sia quando la distanza spezza le fibre di legami che non sembrava possibile intaccare.
Ti vedo scalpitare a volte, ti vedo allenare quelle ali ancora piccole che ti sono spuntate, ti ascolto ferirmi con quelle risposte che a volte mi dai, mi ascolto ferirti con mille rimproveri, e lo so, ti ho ferito cento volte più di quanto tu abbia fatto con me, nel tentativo tutto sghembo di aiutarti a crescere.
Che poi, chissà in che modo si può aiutare qualcuno a crescere, sono ancora qui che me lo chiedo.
Prima era semplice: darti da mangiare e giocare con te, non serviva altro per farmi amare alla follia.
Eravamo noi due.
Adesso il nostro mondo si è popolato a dismisura: di persone, di contesti, di abilità, di doveri, di strutture. Una montagna di cose, tutta costruita sopra quell'amore puro che era tutto ciò che avevamo quando sei nato. Una montagna che finisce per nasconderlo, inutile negarlo, e ci pesa sopra come un macigno, certi giorni.
Ma è tutto lì, nascosto ma inalterato, e forse l'unica cosa che vale davvero la pena insegnarti, per aiutarti a crescere, è come andartelo a prendere tutte le volte che ne avrai bisogno.
Tanti auguri, Bruco. Dal profondo di quell'amore puro, che per fortuna qualcuno mi ha insegnato ad andarmi a prendere quando ne ho bisogno.

venerdì 15 aprile 2016

Da grande

Tutti, da piccoli, abbiamo pronunciato la frase "da grande voglio fare...", seguita dalle professioni più disparate. Succede poi che qualcuno lo fa davvero, quello che aveva detto di voler fare, ma nella maggior parte dei casi si finisce a fare tutt'altro.
Io ad esempio ricordo che quando me lo chiesero in prima elementare risposi "l'attrice", e proprio quell'anno debuttai sul palco della scuola nel ruolo di Jimmy, il porcellino saggio, all'interno della messinscena di "Insalata di favole". Hai detto niente. Avevo 6 anni.
Poi sono cresciuta, e ho iniziato a cambiare mestieri: archeologa (manco a dirlo, colpa di Indiana Jones), architetto, biologa marina. Ho cambiato un sacco di mestieri, senza mai includere l'unico che mia madre desiderasse veramente, che era "il dottore". Vuoi mettere avere un dottore in famiglia? Con tutto il rispetto per i Jimmy del mondo.
Poi è successo che ho iniziato a leggere, e a scrivere, a leggere leggere leggere, e scrivere scrivere scrivere, e mi sono iscritta a Lettere. La Facoltà dei cazzeggiatori romantici, la Laurea dei "ma poi che lavoro fai", e soprattutto gli Studi di quelli che sanno a memoria le poesie di Guido Gozzano sapendo che a nessuno frega assolutamente niente di questa cosa. Nè tantomeno di Gozzano, e delle sue poesie.
(per inciso, io quei quattro anni li rifarei da capo pari pari perchè ad oggi sogno di fare esattamente quello che facevo in quei tempi, ovvero leggere e scrivere, e basta).

Adesso che ho un figlio seienne, la fase del "cosa farò da grande" è tornata abbomba.
Il Bruco, oltre a non aver capito esattamente che lavoro fanno i suoi genitori, ha cominciato a fare elucubrazioni sul suo futuro.
Il ragazzino è parecchio in ansia, perchè non riesce a dare un nome ai vari lavori esistenti nel mondo.
Prima ha voluto sapere che lavoro fanno quelli che salvano i panda e le tigri dall'estinzione.
Poi ha voluto sapere che lavoro è lo psicologo, e io gli ho risposto d'istinto che è il dottore dei pensieri, ma temo di averlo turbato ulteriormente.
Infine, ieri, si è pronunciato.
"Mamma, io da grande voglio fare il tecnologico!"
"Il tecnologico? Ma in che senso, Bruco? Che mestiere è?"
"Voglio fare come Leonardo Da Vinci. Quello che inventa le cose"
Io sono caduta dalla sedia.
L'Interista si è limitato a razionalizzare: "ma è ovvio, vuole fare l'ingegnere"
Io sono caduta dalla sedia di nuovo.
Perchè con tutto il rispetto per gli ingegneri, una che ha debuttato come Jimmy il porcellino saggio e adesso cazzeggia scrivendo online, il figlio ingegnere non lo può proprio concepire.
"No ma dico, guardalo. E' troppo fico per fare l'ingegnere. Poi ha sempre la testa tra le nuvole, non è mica il suo"
E niente, mi sono sorbita la ramanzina dell'Interista che mi spiegava che i genitori non devono mai avere delle aspettative, proiettare sui figli etc etc etc.
Poi mentre mi spiegava tutta questa storia, che io già la so ma poi metterla in pratica è proprio un'altra cosa, arriva il cucciolo di casa (cucciolo di iena, s'intende) che si lancia dal divano urlando come una scimmia impazzita.
"Guardalo! Guardalo! Lui da grande farà chiaramente il wrestler!" esclama trionfante, con lo sguardo illuminato dall'opzione fisica intravista nel figlio.

Niente. Qualcosa mi dice che tra una ventina d'anni, con un figlio ingegnere e uno lottatore di wrestling, avrò bisogno di un dottore di pensieri.
Magari uno dei vostri figli, che da grande sarà diventato quella cosa lì.

venerdì 1 aprile 2016

Scene da un manicomio

A volte la quotidianità è faticosa. Più raramente è lieve, spesso complicata, e non sempre si riesce a guardarsi dal di fuori. E forse è meglio così. Perchè a volte, quando ti fermi e guardi dentro casa tua come se fossi uno spettatore, ti accorgi che non è la fatica l'elemento predominante. Nè la logistica assurda, nè la levità. E' la follia, quella pura, senza compromessi.
Io non vivo a casa di Orlando. Io vivo in una gabbia di matti.

Ieri, dal panettiere.

- Enea, vuoi una focaccina?
- No, bignè.
- Guarda che diventi ciccione. Io te lo dico, cocco di mamma tua. Non si può essere golosi come sei tu. Vuoi una pizzetta?
- No, bignè. Due bignè.
- Mi fa piacere che tu abbia imparato a dirlo così bene. Facciamo un biscotto di frolla?
- Signora, bignè. (niente, gli manca solo il portafogli ormai)
Interviene il Bruco.
- Mamma, io te lo dico: se gli compri il bignè mi devi comprare il raccoglitore con i 4 anelli che si aprono contemporaneamente!
- Ma scusa Orlando cosa c'entra?
- Perchè non è giusto che accontenti lui e me no. Io non voglio il raccoglitore che devi aprire gli anelli a due a due come quello che mi hai comprato!
- Bruco, ma stai scherzando vero? Ma cosa cambia?
- Dai, mammaaaa... faccio troppa fatica se devo chiuderne due alla volta.
- Scusi, signora, mi dà due bignè? Anzi faccia quattro. Ne mangerò due alla volta e non tutti e quattro insieme, anche se mi costerà molta più fatica.

Ieri sera, a casa d Orlando.

E' sera, pericolosamente tardi, l'ora della nanna è scoccata da un po' mentre il caos regna, la tavola non è sparecchiata, il Bruco continua a lanciare la palla ovunque.
Enea appena pigiamato si divincola dalle mie braccia mentre cerco di portarlo in camera e scappa in preda a un raptus.
Torna brandendo una maglietta di non so quale giocatore nerazzurro.
"Mette malietta, mette malietta, mamma"
Io inizio a dare i numeri.
"Nooooooo devi andare a nannaaaaaaa, adesso bastaaaa, è tardissimoooo... interista, aiutami ti prego!"
Lui non si palesa, ma dalla cucina arrivano queste parole, con un tono pacato che manco Sai Baba.
"Tranquilla, è lo spirito di Peppino Meazza che si è impadronito di lui. Quando fra quindici anni lui sarà in serie A e tu alle Maldive, allora capirai".

Beh, gente. Io vi sto vedendo ridere. Sto anche vedendo che voi pensate che io mi inventi tutto.
Ma il fatto è queste cose sono accadute veramente. E soprattutto, non c'è un cazzo da ridere.

venerdì 26 febbraio 2016

Due

Due come gli schiaffi che rifili a tuo fratello ogni volta che si avvicina per darti un bacio.
Perchè hai un carattere ruvido e schietto, e su questo temo ci sia poco da fare.

Due come le due volte all'ora in cui ti svegli la notte, perchè riposarsi troppo a lungo non è proprio nel tuo stile, e la guardia, si sa, un guerriero che si rispetti deve sempre tenerla alta.

Due come i denti che ti mancano per essere un bambino quasi grande, due come i tuoi giochi preferiti, due come le volte che ripeti ogni parola nuova che hai imparato.

Due, quattro, otto, duecentomila, come le volte che devo ripeterti le cose, che poi tanto non mi ascolti e fai di testa tua, perchè sei caparbio e cocciuto, e nessuno può farti cambiare idea se ti sei messo in testa qualcosa.

Due come le scarpe che non vuoi mai infilarti, come le ore che ci metto ad addormentarti, come i "terribili due" che interpreti fedele al manuale del perfetto pestifero.

Oggi sono due anni che sei con noi, già due, solo due.
Due faticosissimi, due emozionanti, due pazzi anni.

Quando sei nato mi sono detta: "Due anni, devo resistere i primi due anni, e poi si inizia a vedere la luce fuori dal tunnel". Ma avevo esperienza di un Orlando, dolcissimo, insonne ma sognatore, pensieroso ma capace di esprimersi a perfezione in tanti modi. 
Non avevo fatto i conti con te.

Te che negli ultimi 30 giorni hai:

- affiancato una vecchietta col bastone e tentato di sottrarglielo
- colorato con pennarello verde le prime 20 pagine dell'edizione rara de Lo Hobbit di tuo fratello
- schiaffeggiato una delle guide della Fondazione Prada che si era chinata a dirti "ciao bel bambino"
- divelto la barra portasciugamani del bagno e sferrata in testa a tuo fratello, lasciandogli un buco a un centimetro dall'occhio
- alzato di soppiatto a 250° il forno mentre cuoceva una torta infornata a 180° per gli ospiti imminenti
- spalmato addosso un intero vasetto della mia crema viso e tentato di togliere la suddetta crema nel bidet allagando il bagno
- buttato ben 3 palle di spugna dentro il water
- usato la lettiera della gatta come spiaggia personale

Antipatico per vocazione, diffidente per religione, sei capace di raggiungere vette inaudite di decibel con le tue urla. Sorridi rararmente e di solito se stai prendendo per il culo qualcuno. Sei un maestro nell'arte coreografica del buttarsi a terra e mimare convulsioni fino al raggiungimento del tuo obiettivo. Picchi indistintamente tutti i componenti della famiglia, con predilezione per quelli maschi. Puoi arrivare a mangiare fino a tre piatti di pasta consecutivi e 10 biscotti, e poi urlare "ancoaaaa". Lanciare oggetti è uno dei tuoi sport preferiti.

Auguri, Enea. Non lo so se adesso che hai due anni inizierò a vedere la luce in fondo al tunnel.
Ma so che in questo tunnel, tutto sommato, non si sta poi così male.
Basta saper schivare gli oggetti volanti.


mercoledì 10 febbraio 2016

Pagelle e parole

Che sei brillante e simpatico, sveglio e intelligente.
Che sei un bambino amato, anche se non fai niente di particolare per farti amare.
Che sei educato e gentile, molto rispettoso degli altri.
E che hai uno straordinario senso dell'ironia, un'ironia squisitamente british, una dote rara per un bambino.
Questo hanno detto le maestre, ieri, quando sono andata a ritirare la tua prima pagella, piena di numeri incapaci di restituire davvero tutto quello che è avvenuto in questi primi mesi di scuola elementare, e che per questo motivo, stante l'obbligo di dover per forza riempire quelle caselline, sono stati scritti uguali per tutti. Perchè la matematica è affascinante, ma per raccontare spesso servono le parole, e a quanto pare a te le parole piacciono parecchio.

"Scrive, scrive, è sempre lì che scrive... e quando poi gli dico di fare anche il disegno lui mi guarda come a dire: ma cosa disegno a fare che l'ho già detto con le parole? E io so che lui ha ragione" mi racconta la maestra.

E quando me l'ha detto mi si è un po' accelerato il battito, perchè io di parole ci vivo e in mezzo alle parole ti ho fatto crescere, nel bene e nel male, e quest'immagine di te che riempi i quaderni di scrittura spontanea mi richiama alla mente tutte le ore, i giorni, passate insieme a leggere e raccontare.

(quel poveraccio di tuo fratello invece farà fatica a contare i minuti, e infatti sta venendo su a caso come le ortiche - ma questa è un'altra storia)

Hanno anche detto che a volte sei un po' "carlone" (nomignolo di Carlo Magno, che a quanto pare aveva uno stile un po' rustico e trascurato), e anche qui ho perso un battito perchè, com'è noto ai più, io sono affetta fin dalla nascita da "soralellismo" e forse questo aspetto del tuo carattere è un po' colpa mia.
Ma questo si sono raccomandate di non dirtelo, di dirti solo che sono molto contente di te, del tuo modo di essere e di apprendere, della vostra complicità.
Hanno detto anche che non sei per niente egocentrico, e sai lasciare agli altri il giusto spazio, e questa è tutta farina del tuo sacco.

E poi sono tornata a casa a piedi, attraverso il parco e sotto il diluvio, e nella mia testa vorticavano tutte quelle parole, quegli aggettivi, pensavo alla bella scuola dove stai crescendo, al sorriso delle tue maestre così appassionate, alle lettere sghembe che ti escono dalle matite, ai tuoi polpastrelli sempre sporchi di grafite, ai nostri viaggi di ritorno il pomeriggio, io e te sulla bicicletta mentre tu mi racconti cose buffe e io pedalo arrancando. Poi finalmente sono arrivata a casa, ho aperto la porta e mi sei comparso davanti saltellando. Le parole erano scomparse tutte e c'eravamo solo noi, una sera come tante.
E oggi mi dico che forse sta tutta qui, la felicità.