venerdì 19 dicembre 2014

Questione di carattere

Quando aspetti un bambino, è inevitabile avere delle immaginazioni a riguardo. In qualche modo te lo figuri nella mente, io ad esempio ero convinta che Orlando sarebbe stato moro, ricciolo e occhialuto, con l'aria un po' sfigata. Invece è un bellone biondo occhi azzurri con dei capelli che più dritti non si può.
Poi quel bambino cresce, e tu inizi a cercare di scorgere in lui delle inclinazioni, delle potenzialità, a cercare di inquadrarne il carattere, e anche lì inevitabilmente hai delle immaginazioni in testa, chiamiamole così. Ti dici che lui sarà come vuole essere, e farà quello che vuole fare, perchè anche tu a suo tempo sei passato sotto il peso delle immaginazioni genitoriali (mia madre mi voleva medico, io ho studiato Lettere). Però un po' ti piacerebbe che diventasse, chessò, un pianista. O un calciatore. No ma tanto per dirne due. Ma sono pensieri fugaci e en passant, perchè la verità, nella gran parte dei casi, è che vuoi solo che sia felice. Sì, insomma, che non si droghi, che non vada a rubare, che abbia degli amici e che si goda l'esistenza.
Poi il carattere di quel bambino inizia a manifestarsi in maniera sempre più evidente, e lì inizi a chiederti se e quanto tu abbia influito, in che modo "accompagnarlo", senza forzature ma senza abdicare alle tue specifiche di genitore.

(e qui aprirei una grande parentesi, perchè lo so che molti di voi stanno pensando "trent'anni fa la gggente non si faceva queste menate, la pedagogia moderna ha rovinato le famiglie, quando il problema era avere o non avere il piatto in tavola non si stava a fare filosofia sulle questioni dei bambini, eccetera: ma io qui vi dico "signori, i tempi sono cambiati, nel bene o nel male. Non rompete le balle e continuate a leggere, se vi va. Oppure andate sereni e con la mia benedizione alla recita di Natale di vostro figlio)

Insomma, poi un giorno succede che tuo figlio scoppi a piangere disperato perchè "io odio la musica, mamma. Non voglio andare alla recita di Natale, non voglio cantare le canzoni d'amore, non mi ricordo le parole", insomma un fiume in piena di disperazione che diventa poi mutismo e rassegnazione il giorno della suddetta recita mentre tutti saltellano allegri al ritmo di Jingle bells.
"Oggi è il giorno più brutto della mia vita", detto da un cinquenne, è una cosa che ti strazia l'anima.
Pianista, dicevamo? Naaaaaaaa... E poi era solo un esempio.

Lo stesso figlio poi, magari, dopo essersi fatto iscrivere a scuola calcio con sbattimenti annessi e connessi di una povera madre che fino a quel momento ignorava l'esistenza delle magliette termiche e dei calzettoni chilometrici, del fango tra i tacchetti e della puzza orrenda di certi spogliatoi, dicevo, quel figlio si draia in campo ogni due per tre nel mezzo degli allenamenti mandando in crisi il suo calciofilo padre che non pensava certo di avere un campione in casa ma uno a cui piaceva giocare a calcio magari sì. Il fatto poi che la prima partita della bruco-squadra finisca 10 a 0 e quel tuo figlio sia in porta non aiuta.

Ebbene.
L'Interista è propenso a credere che il ragazzino sia malato di perfezionismo, e pertanto rifiuti di fare qualunque cosa non gli riesca a perfezione, cioè tutto, essendo che lui ha 5 anni e standard evidentemente troppo elevati. A ciò vanno aggiunte una buona dose di pigrizia e di nerditudine, che non aiutano, no.
La mamma è propensa a credere nella teoria della ghianda di Hillmann, illustrata in questo blog in tempi non sospetti, e ciononostante è un po' disorientata dal fatto che il ragazzino sia uno di quegli esemplari tormentati che affollano i tempi moderni (Dio ti prego, fa' che non diventi un'emo, o come si chiameranno tra dieci anni).

Ieri pomeriggio, ore 18.05, a casa di Orlando.

"Mamma, io da grande voglio fare il camionista, oppure il cuoco e avere un ristorante"
"Ecco, il cuoco mi sembra una bella idea..."
"E tu cosa vuoi fare da grande?"
"Io sono già grande, amore"
"E cosa fai?"
"Scrivo su un giornale"
"No ma io dico un lavoro vero mamma, come il cuoco o il camionista"
"..."
"Forse hai ragione, Bruco. Magari cambio lavoro. Cosa potrei fare secondo te?"
"Il cavaliere di spade. Di spade laser, però, come quella di Yoda"

Perciò niente, se nei prossimi mesi dovessi chiudere il blog sappiate che sarò in giro per qualche strada della suburbia milanese con una spada fluorescente. Alla faccia delle immaginazioni genitoriali, e anche della teoria della ghianda.






mercoledì 3 dicembre 2014

11 cose che ho imparato in 11 giorni di ospedale

La vita, si sa, è così: quando pensi di essere al sicuro, quando tutto va bene e quasi ti assopisci col sottofondo del treno sui binari, ecco che ti strattona per ricordarti che non esistono "zone di conforto".
E quindi un giorno di novembre finisci in pronto soccorso e ti ricoverano, tu e il tuo figlio novemesenne, preda di febbre alta, vomito e diarrea incoercibili e tutti iniziano a fare le ipotesi più assurde mentre tu sei lì e ti cachi addosso dalla paura.
Ecco quindi una lista semiseria di cose che ho imparato durante i giorni del ricovero.

1. La medicina non solo non è una scienza esatta, ma è più che altro supportata da attività quali la divinazione, la stregoneria, l'azzardo e la speculazione filosofica.

2. Gli anestesisti si credono divinità in terra (e probabilmente in certe circostanze lo sono), non hanno alcuna paura (ne ho visti due infilare aghi nel collo di mio figlio e ravanare cercando la giugulare) e soprattutto fanno paura. Archetipicamente, morfologicamente, esteticamente paura.

3. Una brava infermiera fa la differenza.
(Nel nostro cuore ne sono rimaste tre: Regina, una cinquantenne che fisicamente pareva uscita da un film di Ozpetek ma con la personalità di un personaggio dei Legnanesi; Filomena, detta Filo, una siciliana che ha azzeccato la diagnosi dopo un'ora che stavamo dentro, e i medici ci hanno messo 7 giorni; e Natalya, una bionda di un qualche paese dell'Est Europa che come usava la siringa lei nessuna mai, e secondo me la scritturerebbe Tarantino)

4. In ogni ospedale, in ogni reparto c'è un vecchio medico in pensione che viene convocato all'occorrenza quando il caso è incerto e complicato, una sorta di Dr. House de' noantri, che nel nostro caso era juventino e comunque è stato utile come una sciarpa alle Bahamas.

5. Bisognerebbe riflettere seriamente, molto seriamente, sulla questione 'cibo ospedaliero'. Qualcuno mi deve spiegare che cazzo di problema hanno i finocchi che escono dalle cucine dell'ospedale, e perchè i fagiolini sanno di cavolfiore, e perchè le verdure passate che avrebbe dovuto mangiare Enea avevano il colore, la consistenza e l'odore del vomito. Non c'è una ragione, non deve esserci.

6. Due settimane in ospedale funzionano meglio della Dukan (vedi sopra).

7. Quando pensi "che sfiga questa cosa che mi è capitata eccetera" è il momento che ti spostano dalla singola alla doppia e scopri che il tuo compagno di stanza, da solo, basta a giustificare l'esistenza nella storia di un personaggio come Erode.

8. Quando sei tumulato in una stanza di ospedale, capisci quale sia forse, anche, il senso della tecnologia: tra uozzap, feisbuk, tuitter e stronzate varie, il tempo passa più veloce, riesci anche a sentirti meno solo. Può anche non piacere ma è così.

9. Quando sei tumulato in una stanza di ospedale, finisci in un battibaleno quel libro da 900 pagine su cui ti eri incartato, e scopri che la bellezza esiste sempre, anche se tutto intorno ti dice il contrario. E ci aggiungi pure un fumetto, o una graphic novel che dir si voglia, e scopri che ci sono cose che fanno spaccare dal ridere anche quando tutto il resto fa piangere.

10. La mamma è sempre la mamma, e niente è come la mamma, in qualunque modo essa sia fatta. E' banale, ragazzi, ma non c'è un cazzo da fare. E' drammaticamente vero, nel bene e nel male.

11. Come recita un proverbio africano, "per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio". Anche virtuale, aggiungo io. (E ancora grazie a tutti).