sabato 23 ottobre 2021

Foliage

È un sabato pomeriggio di fine ottobre, il sole batte caldo sulle schiene e sul sintetico: del campo, dei maglioni, della divisa giallo fluo che il portiere indossa, numero 12 sul retro. Il portiere, quello là, lontanissimo a tentare di coprire una porta gigante, è mio figlio.

È un sabato qualunque del 2021, e lo osservo da bordo campo. Era parecchio che non capitava - da qualche anno tendo a disertare in favore di mostre o mercati in compagnia del più piccino -, e mentre lo guardo penso a questa cosa che è il calcio dei bambini e poi dei ragazzini, il calcio che cresce, i ruoli che cambiano, le calze di spugna sempre più strette, i tornei infiniti nei posti brutti col puzzo delle salamelle alla brace che ti si appiccica addosso, 7 anni, i bambini che a settembre fai la conta di quelli che sono andati e venuti, 7 anni, sono 7 anni che gioca, più di metà della sua vita.

È un sabato d’autunno ma qui nessun foliage da ammirare: siamo ai confini tra la città e l'hinterland, intorno arterie di traffico, vecchi palazzoni cresciuti tra i 70 e gli 80, scheletri di fabbriche che son rimaste a produrre solo un’idea di tristezza, nuovi edifici di classe A che ospitano rapper famosi in cerca di periferie addomesticate da guardare con la prospettiva di un terrazzone a loggia e la domotica.

In questo sabato tiepido a bordo campo rivedo la sua storia di apprendista calciatore come un nastro riavvolto. Rivedo il bimbetto di 5 anni coi calzettoni arancione mezzi calati, ché la precisione non è mai stata il suo forte. Corre, ma ogni tanto si sdraia in campo e guarda verso il cielo, mentre suo padre cristona da lontano. E’ pigro, dico io. Lo attacco con una corda al motorino e lo faccio correre finché non m’implora di fermarmi, risponde lui, con la consueta pacatezza e il senso della misura che lo contraddistinguono. 

Ha fatto anche dei goal, quel bimbetto, qualche volta, in qualche partita, ma a un certo punto sceglie di fare il portiere, perché - sospetto - gli piace stare dentro le cose ma anche un po’ fuori, essere in una squadra ma con diversa divisa, adottare una prospettiva privilegiata. Privilegiata un cazzo, se ripenso a tutte le volte in cui mi sono tappata gli occhi con le mani mentre gli avversari sferravano l’attacco, lanciandosi a bomba verso la sua porta, mentre partiva una palla che poteva andare ovunque, poteva essere goal, poteva schiaffeggiargli la faccia e l’orgoglio: l’occhio della madre, direte voi, sì, ma la madre del portiere, aggiungo io. Quella che ogni sabato chiede “quanti ne ha subiti?” e mai “quanti ne ha parati?”.

Rivedo il bimbo già grandicello, 9 anni o giù di lì, dimenticarsi i pezzi in spogliatoio, uscire coi capelli fradici mezzi impiastrati di shampoo, le pelle del viso brasata in luglio perché lui non è un portiere da cappellino. Rivedo le settimane con tre allenamenti, i sabati e le domeniche ingolfati di partite, la coppa che una volta ha vinto “per fair play”. Riascolto le prediche di suo padre sull’impegno e sul carattere, la mia domanda ripetuta all’infinito “sei sicuro di voler giocare a calcio anche quest’anno?”. Quest’anno, 7 anni. 

Al sole di questo sabato ripenso alle borse sempre umide, ai guantoni con la gomma che si sventra e decade, ai pallini neri ovunque del sintetico, ai pelucchi d’erba finta che s’incastrano nella trama dei calzettoni e non se ne vanno mai. Ai tacchetti, ai parastinchi, alle convocazioni un’ora prima dell’inizio in posti improbabili della pianura tossica e nebbiosa, agli allenatori che ha avuto. Quelli bravi, appassionati e giovani; quelli disonesti e spocchiosi; quelli capaci di insegnare solo a chi è già dedito; quelli mediocri che almeno non fanno danni (o forse sì?); quelli che bastonano, alla Jeff Turner.

E nel frattempo hai 12 anni, hai cambiato squadra, divisa, compagni, orari, hai il 43 di scarpette, e lo spazio si è dilatato a dismisura: hai iniziato a giocare a calcio a 11, e il campo sembra proprio quello di Holly e Benji, dove corri, corri, e la porta non arriva mai. Tu stai lì, dove hai scelto di stare, una figurina alta e bionda tra i pali, per terra non ti sdrai più ché l’allenatore di adesso è un po’ matto, meglio non sfidarlo, ma ogni tanto lo sguardo vaga in alto lo stesso, ne sono sicura, anche se sei troppo lontano e non lo vedo, anche se non vengo a vederti quasi più. 

Tu stai lì, dove hai scelto di stare, per incoscienza o per coraggio, stretto nella tua maglia fluo col numero 12, il campo è gigante, la porta da difendere sembra sconfinata, hai paura ma non si vede: è un sabato pomeriggio di fine ottobre, il sole batte caldo sulle schiene e sul sintetico, e il foliage sei tu, con tutti quei goal subiti e parati che ti porti addosso, splendido arbusto in mutazione. E’ stato bello (ri)vederti. Però sabato prossimo vado con tuo fratello al mercato, a comprare le zucche.

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