martedì 15 dicembre 2015

#orgoglioponpon

Io da piccola, credo di averlo già confessato, ero un po' un caso umano.
Bruttina e disadattata, ad aggravare la situazione gli outfit improbabili (persino per gli anni '80) forniti da mia madre, e le acconciature che non avrebbero sfigurato nel bar di Guerre Stellari.
Poi sono cresciuta, ho perso un po' di sfiga ma mantenendone quel tot che sarebbe servito in tempi (recentissimi) in cui anche essere sfigato aveva un suo perchè.
Una cosa però mi sono sempre detta: ai miei figli non succederà.
Ai miei figli non succederà di tornare a casa da scuola col magone perchè il tal compagno li prende in giro, non per qualcosa che dipenda da me.
Ma la vita è bastarda, si sa.

Qualche giorno fa il Bruco ha perso il suo cappellino rigato e molto cool di un noto marchio di abbigliamento giocando al parco. Io la mattina dopo ho aperto il cassetto e ho tirato fuori un altro cappello che avevo lì. Vediamo se ti và, gli ho detto. Gli andava.

Venerdì, ore 16.40, fuori dai cancelli di scuola.

"Ciao Bruco! Com'è andata oggi?"
"Eh..."
"Eh cosa?"
"Mamma c'è un bambino che mi prende in giro..."
"Ti prende in giro? E per cosa?"
"Per il ponpon"

Trasecolo.
"Per il ponpon? Ma che davéro? Ma come per il ponpon?"
Io, la bambina dalle tre trecce, la più perculata della scuola elementare, non mi ero posta il problema del ponpon.

Lunedì, ore 16.45, fuori dai cancelli di scuola.

"Ciao amore! Tutto bene?"
"Mamma mi prendono ancora in giro..."
"Ancora? Ma per il ponpon?"
"Sì... ridacchiano e mi fanno l'imitazione"

Quindi praticamente non conta niente se sei di una bellezza esagerata.
Se hai lo stigma della sfiga, e se questo stigma si concretizza in un ponpon sul cappello, non c'è niente da fare.
Ma da quando il ponpon è da sfigati? Perchè non ne sapevo niente?
Faccio qualche ricerca su internet e trovo addirittura un libro, appena uscito, edito Rizzoli, che racconta di un bambino sfigato con un enorme ponpon in testa.

Come direbbe mia madre: io boh.

Lunedì sera, a casa di Orlando.

"Interista, abbiamo un problema"
E gli racconto del ponpon.
"Cosa facciamo? Eliminiamo il problema cambiandogli cappello o ne facciamo una questione di principio? No perchè io non voglio dargliela vinta a questi perculatori in erba, sono pronta a lanciare su twitter l'hashtag #orgoglioponpon, che poi praticamente è una versione sofisticata di #orgoglionerd (e il Bruco ha decisamente pure quello) - dovete sapere che l'Interista nel frattempo è diventato un uomodigital e quindi bisogna parlare la sua lingua per ottenere i migliori risultati"
"Ma và, che gli desse due testate e la finiamo così" (ok, non del tutto digital).

Ad oggi il ponpon c'era ancora.
Un po' perchè quelle tre trecce mi hanno resa quella che sono, pur attraverso un mare di difficoltà, e rivendico la validità di quel percorso.
Un po' perchè bisogna imparare a cavarsela da soli, a difendere le proprie scelte anche se impopolari e un sacco di altre belle cose che adesso non mi vengono in mente, lo ammetto, perchè mi dispiace un sacco per quel bel muso che sta sotto al grande ponpon.

E comunque #orgoglioponpon

Ps: voi che dite, glielo cambio, il cappello?

martedì 24 novembre 2015

Lost Love

E' un cubo di vetro e acciaio, all'interno del quale è ricostruita una stanza. 
Più una situazione che una stanza. Ci sono un lettino ginecologico, un attaccapanni con un camice bianco appeso, un tavolino con dei ferri da chirurgo, e oggetti di cui qualcuna si è spogliata in un tempo che non è definito, forse ieri, forse 10 anni fa. 
Un orologio, una collana di perle, un anello d'oro, scarpe, una borsa, effetti personali simbolicamente abbandonati: quelli sì che si possono mostrare, al contrario degli affetti, abbandonati anche loro, lasciati lungo il percorso in qualche stanza o in qualche via. 
E' la scena di un aborto che è stato, è la stanza in cui qualcosa è andato perduto, non si sa come, non si sa perchè.
Il cubo di vetro è pieno d'acqua, e meravigliosi pesci tropicali vi nuotano all'interno, lenti come il tempo, veloci come il tempo, nulla di più adatto a mimarlo. Occhi tondi che da dentro ti guardano, ti inchiodano, guizzano oltre l'abito dell'abitudine che hai cucito addosso.
Le staffe volteggiano molli, trascinate dalle correnti e dai movimenti dei pesci che incuranti soggiornano tra le attrezzature chirurgiche, piccoli pesci simili a sogni in cerca di un posto dentro questo grande utero che in un presente accennato è vuoto.
Acqua, acqua ovunque, e pesci, forse una simbologia fin troppo facile per una maternità a cui (dover?) rinunciare.
Guizzi di colore in mezzo alla desolazione - colori che ti ipnotizzano, ti fanno dimenticare - quell'istanza insopprimibile di vita che racconta di tutti i figli che il mondo ha messo al mondo e sempre ne metterà.




Molti mi hanno chiesto come facesse a piacermi un'opera così inquietante, così triste.
La risposta è qui, ed è che la trovo di una poesia struggente. Si intitola Lost Love.
E' di Damien Hirst e la potete vedere alla Fondazione Prada fino al prossimo gennaio.

mercoledì 14 ottobre 2015

Non riesco a non pensare

E' stato un paio di anni fa, era estate, e io aspettavo che il tempo passasse nella piazza del paesiello (quasi) natìo dove fino ad ora ho trascorso i miei 'agosti' con i bambini mentre l'Interista era già rientrato in "fase campionato".
Ero seduta su una panchina col cinquemesenne attaccato alla tetta e il quasicinquenne attaccato alla palla, e all'ennesimo tiro pericoloso gli ho urlato "Orlandooooo, bastaaaaa!".
E vedo questo bel ragazzo che mi si avvicina e mi dice: "Scusa, tu per caso sei la cognata di ...?"
"Sì, sono io" rispondo incredula
"No perchè ho sentito il nome di Orlando e sapevo che eravate da queste parti... leggo sempre il tuo blog"
E insomma abbiamo iniziato una chiacchierata che è durata più di un'ora: lui era un collega (ma più che altro un grande amico) della zia del Bruco, ed era in vacanza nel paese accanto, con la famiglia.
"Mio figlio è al parco giochi qua sotto" mi ha detto, e dopo un po' ci siamo incamminati per raggiungerlo, perchè poi aveva la stessa età del Bruco e allora magari avrebbero potuto giocare un po' insieme. Nel frattempo mi ha chiesto consiglio sui ristoranti della zona, e io gli ho parlato di questo e di quello, che coi chili negli anni avevo messo su anche un po' di esperienza in materia.
Poi siamo arrivati al parco: "eccolo là" mi indica lui, così l'abbiamo raggiunto e io mi sono presentata alla ragazza che era col bambino, iniziando a parlare di cose mammesche.
Dopo qualche parola "io non sono la mamma..." mi dice lei.
Non era la mamma, perchè la loro famiglia era composta da due papà.
Pochi minuti e ho potuto parlare di cose mammesche con la persona giusta, un altro bel ragazzo che nel frattempo raccoglieva pinoli per il figlio.
"Lo sai che tuo figlio assomiglia tantissimo al bambino di quel film con Jodie Foster dove lui è un piccolo genio?". E via a discorrere di scuole, e di vacanze, dei posti da visitare e di molte altre cose che non ricordo. Poi si è fatto tardi, ci siamo salutati, e son tornata a casa pensando allo sguardo magnetico di quel bambino e a quanto si conversasse bene coi suoi papà.

Pochi giorni fa, Davide (si chiamava così) è stato male all'improvviso ed è morto.
E io non riesco a non pensare al dolore di quel bambino, di quella famiglia.
Non riesco a non pensare che "per fortuna" è mancato il genitore non biologico, perchè se fosse stato il contrario il bambino sarebbe stato dato in custodia ai servizi sociali.
Non riesco a non pensare che viviamo in un paese in cui quella famiglia non ha il diritto di chiamarsi famiglia.

Buon viaggio, Davide, è stato bello conoscerti, anche solo per un pomeriggio.


mercoledì 7 ottobre 2015

Sei

Quando avevi un anno mi dannavo perchè non mi facevi dormire mai, ma avevo già capito che uno con un sorriso come il tuo è in grado di far dimenticare ogni stanchezza.
Quando ne avevi due, e iniziavi a parlare, mi son detta che ero rovinata, perchè sei come tuo padre, ovvero uno che ha la lingua sciolta, le verve polemica e tendenzialmente vuole l'ultima parola.
Poi, a tre anni, hai iniziato a lamentarti che la mattina ti svegliavo per la scuola materna, e ho intuito che prima o poi la cosa si sarebbe fatta durissima.
A quattro hai iniziato a soffrire di crisi inarrestabili di ridarella tremens e scemite acuta, mostrando doti da circense e uno spiccato senso dell'ironia, e lì ho capito di essere proprio spacciata.
A cinque era comparso tuo fratello, e a quel punto è diventato chiaro quali fossero le tue armi, e il tuo tallone d'Achille, nell'arena di famiglia (e più in generale della vita).

Oggi fai sei anni, e come mi fai incazzare tu, nessuno mai.

Auguri, bambino mio perennemente con la testa altrove, disordinato e distratto; auguri ragazzino biondo e con lo sguardo magnetico di cui sei ancora inconsapevole; auguri fanciullo che non sa distinguere tra raccontare una storia e dire una bugia, che per te il possibile e l'impossibile vivono nella stessa casa e hanno pari dignità, così come il reale e l'irreale; auguri Bruco, che da sei anni per te il mio cuore batte un po' più veloce, e ogni tanto perde un battito perchè intuisce certe preoccupazioni future.
Auguri a te che quando ti chiedo com'è andata a scuola mi rispondi che non te lo ricordi "perchè lo sai mamma che sono smemorato", auguri a te di cui prima sapevo ogni dettaglio della giornata e adesso sembrano più le cose che non conosco, che quelle che conosco.
Lo so che ci siamo un po' persi, che non sono più solo la tua mamma e non me l'hai ancora perdonato del tutto, e so anche che quando ti grido dietro perchè nel tuo zaino sembra essere passato l'uragano Katrina tu pensi che un alieno rompipalle abbia preso possesso del mio corpo... però vorrei dirti che anche oggi siamo sempre noi, quegli stessi due di sei anni fa, e di cinque, quattro, tre, due, uno.
Sempre quei due che si riconoscono al primo sguardo, perchè come scriveva Montale "ognuno riconosce i suoi".

Oggi fai sei anni, e come mi fai felice tu, nessuno mai.

martedì 22 settembre 2015

A casa di Enea

A casa di Orlando si dorme fino alle 10, ci si sveglia stropicciati, non si fa colazione e si comincia la giornata parlando di maestri jedi o di importanti questioni calcistiche.
A casa di Orlando si è sempre in ritardo e si ripetono le cose dalle 5 alle 10 volte, il lunedì si ribadisce che il giorno preferito è la domenica e si sta spesso sdraiati per terra perchè, come ricordava qualcuno, la vita va guardata da svariati punti di vista, compreso dal basso.
A casa di Orlando non si mangiano gli spinaci, si schifa il cioccolato, e si consumano quantità invereconde di pan tranvai e formaggi d'ogni sorta.
A casa di Orlando si è sempre con la testa per aria, ci si dimentica di fare la pipì, ci si infilano le magliette e le mutande al contrario, si sogna ad occhi aperti e si parla da soli. Si leggono valanghe di libri, si cantano canzoni su un tale Massimilia-a-a-a-no l'ortolano messicano e si hanno momenti di scemite acuta e ridarella inarrestabile, intervallati a tratti da arrabbiature furiose e repentine, perchè a volte, si sa, nella vita bisogna farsi sentire e manifestare con ogni mezzo il proprio dissenso.

A casa di Enea ci si sveglia a mezzanotte, alle 3, alle 5, alle 6 ma a volte anche di più (non si sa mai che qualcuno si facesse venire in mente di fare la vita comoda), ci si alza belli tonici, si trangugia mezzo litro di latte, poi dei biscotti, i cereali e se c'è pure una fettina di torta. Si comincia la giornata lanciando il biberon perchè tanto c'è sempre un motivo valido per essere incazzati, quindi.
A casa di Enea si pronunciano solo otto parole, tra cui "mio", "paa" (palla), "tatta" (acqua e/o latte) e "Enea", che sta ad indicare qualunque essere umano sotto il metro e cinquanta, oltre che un chiaro e inequivocabile delirio di onnipotenza.
A casa di Enea si fanno scenate che Eduardo De Filippo scànsati, non si accetta il contraddittorio, tutto ciò che può rappresentare un ostacolo - umano, felino o materiale - viene rimosso senza pietà.
A casa di Enea si picchiano i fratelli, le madri, i padri, le nonne, le gatte, e qualunque ospite osi fare qualcosa di non gradito: a volte a mani nude, secondo la teoria del "questa mano pò esse fèro o po' esse piuma", a volte con oggetti contundenti di svariata natura, tra cui i libri, di cui ancora non si è ben capito il funzionamento nè perchè abbiano delle pagine con dei colori e delle parole.

Qualche volta Orlando bussa a casa di Enea, e viceversa, ma il cohousing non fila sempre liscio.
Spesso capita che mi affacci dalla finestra di casa di Enea, salutando l'Interista affacciato alla finestra di casa di Orlando, e gli chieda come va. Tutto tranquillo, mi risponde.
Poi ci guardiamo e ci chiediamo quand'è che torneremo a vivere a casa nostra, mia e dell'Interista.

Anche se, a pensarci bene, questi due ci somigliano un bel po', e quelle due case lì sono proprio le nostre case. Hanno solo fatto un gran casino coi mobili...
 

lunedì 14 settembre 2015

Davvero semplice

Io, il mio primo giorno di scuola, non me lo ricordo.
E non ho foto che possano aiutarmi a ricordare: all'epoca mia madre, incinta al nono mese di un terzo figlio non previsto, aveva altro per la testa che fotografarmi all'entrata di scuola (e probabilmente è un bene visto che mi mandava a scuola con outfit improponibili tipo 3 pattern di Naj-Oleari assemblati ad minchiam e acconciature che avrebbero saputo ispirare Asimov).
Bisogna anche dire che era il 1984, non c'erano gli smartphone e soprattutto non c'era la mania di immortalare ogni singolo momento topico della vita: detto questo, l'ingresso a scuola del Bruco stamattina l'abbiamo immortalato perchè siamo tutti figli del nostro tempo, anche quando non lo vorremmo.

Io, il suo primo giorno di scuola, me lo ricorderò.
E non perchè gli ho rubato degli scatti mentre trafficava in palestra con lo zaino più grande di lui, non perchè ci siamo fatti fotografare insieme al momento del distacco, ma perchè è stata una bella lezione di semplicità.
Il primo giorno di nido piangevi come un disperato. Il primo giorno di materna eri incazzoso come pochi. Ieri sera, alla vigilia del primo giorno di scuola elementare, era come se non dovesse succedere nulla di particolare.
- Bruco, domattina inizia la scuola, hai capito?
- Sì, mamma...
- Non sei emozionato?
- Sì, mamma...
- Ma allora perchè non mi dici niente...
- Non so cosa dire
- Ok, allora vai a nanna che domattina dobbiamo alzarci presto

Si infila sotto le coperte, lo saluto, vado di là... "mamma!"
Ecco, mi dico mentre torno verso la camera, lo sapevo che c'era qualcosa che doveva dirmi...
- Dimmi, amore
- Ma vieni a dirmi se l'Inter segna???!!

E niente, pure io me le cerco. Perchè preoccuparsi del primo giorno di scuola quando puoi preoccuparti per il derby? "Ok, Bruco". Dopo 5 minuti ha segnato Guarin.

Stamattina, finalmente libero dalle ansie calcistiche del derby, il Bruco si è vestito, ha raccattato il suo zaino, ha raggiunto i cancelli con me e l'Interista, ha preso per mano un compagno di squadra che piangeva ed è entrato nella sua nuova avventura, con quello spirito lieve che ha lui, quella leggerezza calviniana che gli muove le gambe lunghissime in un'andatura dinoccolata e un po' sghemba.

E come è entrato è uscito, raccontando cose, insegnandomi che a volte può essere davvero semplice.


giovedì 27 agosto 2015

La Grande Madre

Dalla propria madre non si può prescindere: piaccia o no, le cose stanno così, e quei mesi passati nel grembo materno sono l'unica esperienza che ci accomuna tutti, un tempo-esperienza condivisi a livello universale dall'umanità, un tempo sufficiente a mutuare un archetipo comune, quello della Madre. Non lo dico io, ne ha parlato a lungo la poetessa e femminista americana Adrienne Rich in un celebre saggio, "Nato di donna", una delle letture che hanno fornito le basi per l'ideazione di una bella e complessa mostra aperta ieri a Palazzo Reale, Milano.
"La Grande Madre" non è una mostra per il grande pubblico, non è una mostra da cui si esce con quell'idea stereotipata e conciliante della madre che molti hanno e continuano ad avere (ma non certo le madri, tranne quello che mentono a se stesse), e non è una mostra (solo) sulla maternità.
Sulla donna, piuttosto, la donna-madre, creatrice e creativa, la donna femminista che ha lottato per conquistarsi il potere negato, la donna liberata e da liberare, una mostra sul corpo femminile, incubatore di miti, di archetipi, di iconografie.
E' un percorso espositivo che richiede tempo, quello della visione e quello dell'approfondimento, perché le opere in mostra sono molte (più di 400), e non tutte di artisti/e conosciuti: c'è parecchio da scoprire, bisogna guardare e leggere, essere disponibili a lasciare che l'arte ci disturbi (ma questo dovrebbe essere scontato).
Nelle 29 sale in cui si snoda il progetto, trovate davvero di tutto: tanta fotografia (perché oltretutto la fotografia è la tecnologia madre del '900 in quanto tecnologia della memoria), scultura, video, pittura, trovate persino delle vere madri con dei veri bambini che imparano a camminare, grazie a Roman Ondàk, che ha portato alla mostra l'installazione vivente #TeachingToWalk (se avete un bimbo tra gli 8 e i 12 mesi potete anche partecipare chiamando questo numero, tel. 02760641).
Tanto per dire, tra le sale della mostra trovate una foto di Roland Barthes in braccio alla propria madre, un autoritratto di Diane Arbus incinta, trovate le disturbanti sculture di Louise Bourgeois, non-bambole che mettono in scena le fasi di una maternità; trovate il dolore su tela di Frida Khalo  e della sua maternità impossibile nella sua Cerva ferita, i volti belli e insidiati dal tempo delle quattro sorelle ritratte dal fotografo Nicholas Nixon, Umberto Boccioni e le madri di Plaza de Mayo, il machismo dei surrealisti e i parti meccanici dei Dadaisti. Ma elencare tutto è davvero inutile.
Storia, non solo dell'arte, e tanta psicoanalisi: tanti mondi quante le opere in mostra, quante le madri nel mondo.
Del resto, come scriveva Elsa Morante "Dalle altre femmine, uno può salvarsi, può scoraggiare il loro amore; ma dalla madre chi ti salva?".
Ah, manco a dirlo, c'è anche lei: la mamma di Psycho, in una foto da cui sembra echeggiare il motto del film "il miglior amico di un ragazzo è la propria madre".
Sogni e incubi per tutti, dunque: avete tempo fino al 15 novembre per visitare la mostra.


La Grande Madre 
a cura di Massimiliano Gioni
promossa dal Comune di Milano Cultura ideata e prodotta dalla Fondazione Nicola Trussardi 
(dal 26.8 al 15.11, al piano nobile di Palazzo Reale, Milano)